Grazie...

... a quelli che partono con la voglia di stare, a quelli che vivono il Vangelo prima di predicarlo,
a quelli che non smetteranno mai di sognare, a quelli che l'Amore è solo con la maiuscola,
a quelli che si accettano come sono, a quelli che piangono ad ogni partenza,
a quelli che Africa e Gioia si confondono ogni giorno, a quelli che vivono di emozioni,
a quelli che non smettono di camminare, a quelli che non si abbandonano mai,
a quelli che pregano, a quelli che sul piedistallo non ci vogliono stare, a quelli che Dio non è morto,
a quelli che si vive anche senza moda, a quelli che pensano con il cuore,
a quelli che non scelgono per comodità, a quelli che soffrono e poi ti guardano negli occhi più ricchi di prima,
...e anche a quelli che "Gianpi ci hai rotto con questi ringraziamenti"

"Proseguite il cammino"

OTTOBRE 2009

Questo mese è stato per me particolarmente caro, è stato speciale per la festività di San Francesco che lo ha aperto, poi quelle di San Daniele Comboni e di San Giovanni Calabria che l’hanno accompagnato. Infine c’è anche il mio ritorno in Italia per le vacanze. Ma c’è qualcosa d’altro che rende questo mese ancora più ricco: si conclude il mio primo anno di servizio qui a Nakuru, ed è tempo di riflessione!

Come gli altri anni, anche questo mi è scivolato tra le mani, trascorrendo giorno dopo giorno regalando attimi senza però fermarsi, offrendomi la libertà di cogliere quel momento presente schiacciato tra un passato a volte da rimpiangere e un futuro tutto da programmare tra tante scelte e ancora mille sogni da inseguire.
Vorrei ritagliarmi ora un piccolo spazio per guardare il cammino percorso e vedere un po’ cosa ho tolto e cosa ho messo nello zaino camminando per le strade di Nakuru e, in uno sguardo più ampio, per le strade durante questi due anni e mezzo di Africa.


A CIASCUNO IL SUO

Progetti di cooperazione internazionale, assistenzialismo, animazione, collaborazione, ricerca-azione attiva, evangelizzazione, attività sociali… a ciascuno il suo. Tutti siamo qui per fare del bene e forse basterebbe questo per liberarci la coscienza dai dubbi che ogni giorno nascono sul nostro operato.
Forse basterebbe questo. Ma facciamoci un po’ di critica, che non fa mai male.

Sostanzialmente non credo che la differenza tra le diverse tipologie di relazione di aiuto nasca dall’appartenere ad una ONG (grande o piccola che sia) o ad una congregazione. In Africa il bianco è bianco e pare che poco importi la sua ragione sociale, l’importante è che sia di supporto alla comunità.
Supporto che può essere molto concreto come un progetto agricolo o una distribuzione di beni di prima necessità in una fase di emergenza della comunità. Oppure un supporto meno tangibile come può essere un’attività di insegnamento professionale o di catechesi evangelica. A ciascuno programmare la propria attività. Ma la differenza non sta qui, qualcosa di positivo lo si fa sempre dato che ogni progetto di assistenza nasce dal sopperire ad un bisogno della comunità. Se poi il bisogno è stato espresso dalla comunità tanto meglio, altrimenti la chiusura del progetto significherà inevitabilmente la fine di ogni attività ad esso correlata. Nel qual caso si spera che il seminato abbia già dato frutto.
Gli operatori internazionali possono essere altamente professionali o semplicemente giovani cristiani volontari che si mettono a disposizione, ma anche qui non nasce la differenza tra un positivo operare nella comunità ed uno, diciamo, meno positivo.

Certamente l’essere o meno professionali, la tipologia di progetto in cui si è inseriti, l’appartenere ad una ONG piuttosto che il collaborare in stretto legame a missionari religiosi, sono tra i mille fattori che condizionano il proprio operare poiché sono parte del proprio bagaglio e tracciano i binari da seguire. Ma non ho visto tra questi l’elemento decisivo, il cardine del proprio agire, quel fattore che fa la differenza tra chi getta il seme al vento e chi invece prepara un buon terreno, attende la pioggia e poi affida il seme alla terra. Tra chi fa della propria testimonianza un punto di arrivo, come uno specchio per guardare solo se stesso, e chi invece ne fa una continua ricerca di sè sempre più critica e in profondità.


LE RELAZIONI INTERPERSONALI, IL DIALOGO

All’inizio ero convinto che “tu lavori in Africa in un progetto” o “tu sei missionario” equivalessero a dire “tu sei una brava persona, modello da seguire, perché fai del bene”. Che in parte è vero dato che, come ho detto prima, il proprio operato è comunque e in qualche misura di aiuto. Ma è proprio questa misura che può aumentare o decrescere in funzione del nostro essere e del nostro operare, possibilità che mi spinge non solo a valutare ogni mia azione, come se mi immergessi in un continuo processo di problem solving, ma anche a pesare ogni mia parola.
Perché il fattore cardine risiede nelle relazioni interpersonali che si è capaci di instaurare, relazioni che si costruiscono proprio intorno alla parola. In essa la nostra riflessione si accompagna alla nostra azione poiché queste in essa nascono, crescono, si evolvono entrando in relazione con altre, dando forma (anche se in continua evoluzione) a quella prassi che caratterizza in modo unico il nostro essere e, in diretta conseguenza, il nostro operare.
In altri termini, provando a spiegare questo concetto percorrendolo al contrario, l’operare di ciascuno è strettamente caratterizzato dall’incontro tra la propria capacità di riflettere su se stessi e sull’ambiente in cui siamo inseriti (a qualsiasi livello, dai rapporti internazionali alle relazioni che costruiscono la nostra comunità o la nostra famiglia) e la propria azione con cui portiamo trasformazione a questo ambiante. Tale incontro spazia dall’essere troppo riflessivi, scivolando in prediche vuote perché non portano ad alcuna azione, ad un attivismo fine a se stesso. Questo incontro viene costruito intorno alla parola che è l’unico strumento a nostra libera disposizione per relazionarci con gli altri. Parola e relazioni, quindi dialogo tra noi e gli altri.
Qua il centro attorno a cui tutto ruota (e finalmente ci siamo arrivati direte voi): il dialogo. Dialogo che è base di ogni relazione e che ci permette quindi di distinguere un operare che è trasformazione e sviluppo di una comunità da un operare che è sviluppo solo apparente, come una piccola differenza al processo di adattamento della comunità (che fa felice solamente il benefattore di turno).


LA PROPRIA SCELTA

A ciascuno di noi scegliere come dialogare, ne abbiamo la piena libertà di scelta e quindi la piena responsabilità. A ciascuno di noi scegliere se voler entrare in relazione in un rapporto di fiducia, in una relazione che può dirsi collaborativa e di comunione con l’altro, per poter così conoscere la realtà problematizzandola con le diverse visioni che ognuno ha, operando una sintesi di essa e poter così definire un’azione comune (non sarà più propria ma collaborativa con gli altri) in un’organizzazione, e trasformare la realtà per uno sviluppo di essa.
Se da un lato il dialogo ci permette di raggiungere lo sviluppo reale di una comunità (reale perché generato dai membri di essa), dall’altro può essere anche distruttivo per lo stesso sviluppo della comunità.
Se infatti la mia scelta fosse quella di bloccare i miei collaboratori ad un livello “inferiore” al mio dal punto di vista decisionale e creare in questa maniera un rapporto autoritario e quindi di sottomissione, il dialogo con la comunità porterebbe ad una conoscenza della realtà duale: da una parte la mia visione, dall’altra quella della comunità. L’azione trasformatrice che se ne genera sarebbe una falso sviluppo. Sarebbe la mia decisione che spinge l’azione degli altri i quali si adattano alla mia visione della realtà. Risultato: all’apparenza le cose funzionano e magari si raccolgono anche i frutti, ma la mia assenza porterebbe ad un immediato appassimento della pianta.

Sviluppo reale o apparente della comunità, generato dall’azione trasformatrice, generata dalla visione della realtà, generata dall’incontro con la comunità in un rapporto di fiducia o di autorità.
Ad ognuno la scelta.

Si potrebbe obbiettare che in certe situazioni, in certe fasi di crescita, la comunità non è matura abbastanza per elaborare un proprio processo di sviluppo e solo un inserimento in essa con autorità sarebbe in grado di portarla ad una trasformazione. Certamente, peccato che questa trasformazione sarebbe positiva solo nella nostra visione della realtà e la nostra azione (generata solo da noi) porterebbe ad una falso sviluppo della comunità che si ritiene “non matura” o “troppo indietro”.
Una seconda obiezione potrebbe dire che l’uomo è un essere sociale e una società deve avere un’autorità che la guidi, pertanto è necessaria la presenza di una persona d’autorità all’interno di qualsiasi gruppo. D’accordo, ma qui voglio sottolineare l’assoluta negatività del rapporto di autoritarismo, e non di un rapporto di guida autorevole, cioè di quella autorità intesa come forza morale che fa appello alla coscienza.
L’autorità che si fonda solo o principalmente sulla minaccia o sul timore di pene o sulla promessa e attrattiva di premi, non muove efficacemente gli esseri umani all’attuazione del bene comune; e se anche, per ipotesi, li movesse, ciò non sarebbe conforme alla loro dignità di persone, e cioè di esseri ragionevoli e liberi. L’autorità è, soprattutto, una forza morale; deve, quindi, in primo luogo, fare appello alla coscienza, al dovere cioè che ognuno ha di portare volonterosamente il suo contributo al bene di tutti.” [Papa Giovanni XXIII]


L’ATTEGGIAMENTO DI FONDO

La collaborazione, il rapporto di fiducia e, più a monte, la propria scelta di dialogare con gli altri, non nasce dalla sera alla mattina, non è una cosa che si decide oggi perché si è visto un bel film o perché si è letto un bel libro. Come un consiglio per rendere più gustosa la ricetta della propria vita.

È qualcosa che ha radici nel proprio essere, qualcosa che prende forza dai propri valori e si rafforza nel cammino.
Le occasioni di scivolare nell’autoritarismo sono davvero tremende perché facili e quotidiane. Moltissime volte mi è capitato di vedere un problema, immediatamente definire la soluzione e progettare un’azione. Il che è bene se il problema è mio (minoranza dei casi), male quando il problema è comune con altri o addirittura esterno al mio ambiente. Specialmente non appena sono arrivato dall’Occidente e mi sono scontrato con i mille elementi “storti” africani, è stato facile (tanto facile quanto sbagliato) sentirmi “di più” e iniziare ad operare mille altrettante trasformazioni. Essere poi il protagonista di queste trasformazioni ci fa sentire ancora più buoni e migliori. A volte ci si sente quasi profeti in questa povertà. E si entra così in un circolo vizioso e pericoloso in cui al centro ci siamo solo noi.

Infondo che male c’è ad essere profeti ogni tanto? Che male c’è “educate questo popolo incapace e incolto”? Che male c’è nel “decido io, perché loro sbagliano sicuramente”? O addirittura che male c’è “farli sentire sottomessi altrimenti non lavorano abbastanza e le attività non vanno avanti”?

Tutto questo non incontrerebbe alcun ostacolo in una logica autoritaria, la quale parte da una concezione di dialogo in cui la parola dell’altro viene rubata, in cui lo scetticismo nei confronti della comunità di rafforza ad ogni incontro, in cui l’educazione che si porta avanti ha una struttura puramente verticale in cui “l’io-insegnate-padrone della conoscenza” sono sopra il “loro-discepoli-incolti”, in cui la seconda protagonista (visto che i primi saremmo noi) è una falsa generosità tutto a beneficio del nostro “essere buoni”. Tutti atteggiamenti radicati nell’errato relazionarci, frutto a mio parere di mancata riflessione, eccessiva coltivazione del proprio essere o mancanza di metodo (può capitare che la riflessione è positiva, ma il metodo comunicativo è tanto errato da mutare il messaggio che gli altri percepiscono).

Decisamente più difficile “tu come la vedi?”, “cerchiamo insieme come risolvere questo problema”, “sono riuscito a spiegarmi così?”, “secondo me… e secondo te?”, “proviamo a fare come dici tu”.
Atteggiamento certo molto più faticoso (anche perché certe volte… beh, diciamo che la loro creatività sembra superare i limiti del buon senso). Costa fatica comprendere una cultura diversa, comprendere un diverso senso ironico in modo da poter definire il limite tra lo scherzo e l’offesa (davvero importante in una équipe!!). È davvero lungo il cammino per avvicinarsi a chi è cresciuto in un ambiente diverso e invitarlo a fare qualche passo verso di te (l’incontro è tra i due, non uno che va dall’altro!!!).

È difficile certo e sta a noi scegliere. A noi scegliere che la nostra vita si compia di atti d’amore: è un atto di amore presentarsi all’altro aderendo alla sua condizione, portando con sé l’umiltà di non sentirsi superiore, la speranza che insieme si possa raggiungere una condizione migliore, la fiducia che lui possa accettare il nostro invito con un atteggiamento simile al nostro. Cosa che arriverà a fare se la nostra testimonianza avrà fino in fondo quel coraggio di amare e quella fede nell’uomo che ci spinge.
È difficile anche trovare quel metodo comunicativo che permette di far arrivare il nostro messaggio con meno interpretazioni e misunderstanding possibili. Difficile trovare quel linguaggio comune (comune!!! né il mio né quello dell’altro) che permette un dialogo, un incontro di riflessione e di azione.

Tornando quindi alle osservazioni iniziali, ci possono essere professionisti inseriti in un progetto e presentati come i super-consulenti di turno che dialogano con la comunità o i suoi rappresentanti, riuscendo a costruire quel rapporto di fiducia e quella relazione di collaborazione per cui il seme dato non vada perso. Differentemente ci possono essere padri missionari spinti dal Vangelo che però rubano la parola per poter rafforzare quell’autoritarismo che fa funzionare (apparentemente) le cose, per cui nasce un forte scetticismo nei confronti dell’altro difficile poi da sradicare.


BUON CAMMINO A TUTTI

In queste pagine sono certo di essere stato abbastanza confuso e di aver lasciato molti concetti aperti che necessiterebbero di un’analisi. Non me ne volete, la prossima volta cercherò di essere più chiaro e completo, magari riprendendo alcuni di questi pensieri per approfondirli come meritano. Questa relazione è nata come un semplice tentativo di mettere in ordine pensieri nati in questo cammino africano.

Vorrei infine sottolineare che ho scritto del rapporto tra operatore e comunità, discorso che ha valore tanto qui in Africa per i volontari inseriti in un progetto, quanto in Italia per i residenti nel proprio paese.
Non c’è davvero alcuna distinzione: ognuno è parte di una comunità e ognuno è responsabile della trasformazione di essa. La mia scelta di inserirmi in una comunità africana non mi fa migliore di chi rimane nel proprio paese, essenziale è sentire quella fede nell’uomo tale da renderci capaci di amare, per poter camminare insieme verso uno sviluppo della condizione di entrambi.

Buon cammino a tutti! E grazie per aver letto fino alla fine.





Bibliografia

Paulo Freire – “La pedagogia degli oppressi”
Marzo 1971, ancora immensamente attuale. L’autore, a causa delle sue idee, è stato esiliato dal suo paese, spero di non subire lo stesso trattamento. Libro trovato per caso alla bancarella del Mato Grosso in Valla Imagna (BG), non centra molto ma un po’ di pubblicità non fa male .

La Sacra Bibbia
Immancabile in ogni mia scelta, infinitamente preziosa nella preghiera.

Giovanni XXIII - Pacem in terris

Klaus W. Vopel – “Manuale per animatore di gruppo”
Per non sentirsi soli nel credere nelle potenzialità latenti presenti in ogni persona.

Monte Kenya

Difficile raccontarvi le emozioni del cammino. La fatica nella salita, la bellezza nello spingere i propri passi sempre in avanti, il freddo che ti congela la mente ma non il cuore, il respiro che si fa pesante, la mancanza di ossigeno che ti ferma i pensieri e aumenta il livello di stupidate che dici (concedimi di pensare che sia stata la rarefazione a farmi dire cagate, e non il mio solito essere), lo stupore nell’ammirare il sorgere del sole dalla vetta…
Infinite e stupende le sensazioni provate lungo il sentiero, e la più bella è stata condividere questi momenti con mia sorella: una ragazza meravigliosa che mi ha aiutato e mi aiuta nei miei passi. Tutto il resto passo in secondo piano.

Da bravi Gambirasio siamo stati sotto la media di percorrenza raggiungendo Punta Lenana (4985 m) prima del previsto e con la nostra semplicità: senza portantini ma con i nostri zaini sulle nostre spalle, senza tanta attrezzatura super tecnica (mia sorella usava la torcia del il suo cellulare per illuminare il sentiero…), percorrendo l’ultimo tratto con le mani in tasca per il freddo. Poi la discesa quasi correndo: alle 6.15 eravamo sulla vetta ad ammirare l’alba, alle 13.30 già uscivamo dalla zona protetta del comprensorio del monte Kenya, alla sera eravamo a cena in parrocchia.
E chi ci ferma più!

finalmente rompo il silenzio

È da tempo che non pubblico nulla che quasi quasi mi vergogno, poi rifletto e credo che forse dovrei preoccuparmi di più per quello che pubblico e non per quando lascio questi vuoti…

Comunque eccoti subito subito un paio di chicche che avevo scritto già da tempo ma non avevo avuto ancora occasione di presentare. Ma prima ti voglio scrivere una cosa, e te la scrivo urlando con un po’ di rabbia: sono pieno di difetti, lo ammetto e sono contento ogni volta che me li riconosco, ma
NON SBANDIERO QUELLO CHE NON SONO !!!



Se incontrassi Dio (1) …

Se incontrassi Dio,
probabilmente avrebbe il viso del mio nemico,
forse avrebbe un colore della pelle diverso dal mio,
o forse sarebbe proprio come me lo immaginavo da piccolo: pacioccone, con una barba bianca e un sorriso bonario.
Ma, ancora APPESO SANGUINANTE ALLA CROCE, CHIEDEREBBE AIUTO PER POTER SCENDERE.


Se incontrassi Dio (2) …

Se incontrassi Dio, forse mi direbbe: “Eccoti Gianpi, ti aspettavo.”
“Gesù mio, sono qui. Comunque bastava chiamarmi e sarei venuto subito”.
“Ogni giorno ti chiamavo. Ero il povero che ti chiese l’elemosina, sporco e vestito di stracci, seduto ai bordi della strada. Ero il ragazzo che aspettava da te una semplice e dolce carezza. Ero il tuo collega che, anche se ogni tanto isterico e scorbutico, attendeva la tua pazienza…”
“Gesù mio… ma quanti sei!”
“… ero il tuo vicino di casa che rincasa sempre tardi e con la radio dell’auto a tutto volume. Ero la signora anziana che abita dirimpetto e che ogni due per tre viene a farsi i fatti tuoi. Ero il tuo caporeparto a cui non gli andava mai bene nulla di quello che facevi. Ero il …”
“Gesù mio, cerco che anche tu te li vai a cercare simpatici eh…”
“Lasciami finire dai. Allora, ero… ero… ah! Ero nel sole che ogni giorno ti abbracciava, nel vento che soffiava accarezzandoti, nella pioggia che fresca bagnava il tuo vagare. Ero nel tempo che sfuggiva via da te regalandoti attimi…”
“Puoi arrivare al dunque?”
“Beh si forse, stavo perdendo il filo del discorso… Allora, ero un sacco di persone e cose, ma tu non sempre mi riconoscevi. Perché?”
“… forse perché ero sempre di corsa. Avevo tanta fretta.”
“Di fare cosa?”
“Beh, ora non ricordo. Ma avevo un sacco di cose da fare!”
“Che cosa di talmente importante da non poterti fermare un attimo per una preghiera?”
“Beh… ora non ricordo. Però, o Dio mio e Padre nostro. A proposito com’è che devo chiamarti?”
“Puoi chiamarmi semplicemente Santissima Trinità Unità di Padre Figlio e Spirito Santo”
“…”
“Facciamo che per ora Dio va bene”
“Grazie. Allora, dicevamo… ah si, è vero che fretta, stress, voglia di sicurezza mi hanno sempre separato da Te, o Dio, ma certo che anche Tu potevi farti sentire meglio. Sono state poche le persone in cui ho davvero riconosciuto la tua presenza. E non è che hanno fatto una bella fine. Perché è così difficile seguirTi? Perché sei così scomodo?”
“Sono scomodo, ma come la salita ad una montagna richiede sacrificio e impegno ed alla fine regala la gioia della vetta, così anche LA VITA GIOCATA E SPESA SUL VANGELO RICHIEDE SACRIFICIO, COSTANZA, A VOLTE ANCHE DOLORE, MA SA REGALARTI UNA GIOIA IMMENSA LUNGO IL CAMMINO. Prendi il mio giogo, vedrai che è leggero. Poi, dimmi, è vero o no che come ti amo io non ti ama nessuno?”
“Si, è vero.”
“Bene ora prosegui il cammino”
“Grazie Dio, ti voglio bene. Ci vediamo presto… beh, si fa per dire.”



Laicato missionario e religioso

come argomento non è certo dei più semplici da affrontare, si potrebbe scrivere un libro e non sarebbe ancora sufficiente per dare luce ad ogni angolo che questa tematica incontra.
Ci si potrebbe fare un seminario sulla diversa formazione (quando c’è stata) e su quella che dovrebbe essere fatta. Un altro seminario sui valori da cui nasce la missionarietà, ti prego non dare per scontato che siano gli stessi!
E poi i mille altri aspetti che portano il laico o il religioso ad assumere un certo atteggiamento piuttosto che un altro, a costruire diversi tipi di relazioni.
Insomma, seppure inseriti in uno stesso contesto, arrivano da un diversissimo percorso formativo e religioso e quindi sono portati a seguire due diversi stili di vita. Che assolutamente non si possono né comparare né tentare di amalgamare, ne andrebbe dell’equilibrio di entrambe le parti.

Estremizzando (e voglio portare un esempio davvero estremo) sarebbe come cercare di comparare Che Guevara e San Daniele Comboni.
Può sembrare un mix di sacro e profano, ma se ci soffermiamo su certi aspetti, io non li vedo poi molto tanto distanti: entrambi credevano nella fratellanza come base della comunità, entrambi si sono dati per costruire una società migliore. Entrambi hanno camminato contro vento, spinti dai propri ideali, preferendo incontrare la morte che vivere l’incoerenza.
“Adelante! O victoria o muerte!”
“Il mio grido sarà fino alla fine O Nigrizia o morte!”

Conclusione: ad ognuno il suo ruolo. Il giudizio che conta non è certo né il mio, né di chissà quale Superiore Generale… IL GIUDIZIO CHE IMPORTA SARÀ QUELLO DEL POVERO QUANDO, PRESENTANDOCI INSIEME DA SAN PIETRO, CI DARÀ O MENO IL PERMESSO PER ENTRARE.
E speriamo sia clemente con noi occidentali.

I nostri anni... e i nostri sogni

Domenica, come al solito dopo la S. Messa, mi fermo con i ragazzi per qualche minuto sul sagrato per i saluti (quelli di rito e quelli di piacere).
I ragazzi ne approfittano per divertirsi e, dopo il gioco di cacciarmi le dita sotto le ascelle (che per loro è tanto divertente quanto per me fastidioso), ora sono passati alla conta dei miei capelli bianchi. “Tre!” “No, sono quattro!” “Cinque!” e via proseguendo con la conta.
Ovviamente non vi dico a quanto sono arrivati. Ma tranquillizzatevi, non sono di caduto in una precoce crisi quarantenne, ma ancora una volta mi sono reso conto che sostanzialmente non mi importa poi molto del tempo che passa.
I mean, sono pieno di voglia di vivere e camminare, continuo ancora a inseguire i sogni di una vita senza tener conto che l’età avanza e probabilmente ho già perso qualche treno. Ma chi se ne frega! Lasciamo che i nostri sogni crescano, camminino e maturino insieme a noi, ci indichino la strada accompagnandoci nelle nostre scelte più importanti.
Non perdiamoli per strada, non soffochiamoli negli impegni lavorativi o in faccende che chiunque potrebbe sbrigare. Il proprio sogno è solamente nostro e se noi lo lasciamo nessun altro potrà prenderlo o realizzarlo.

Morale (se ce né una): scrivo oggi di desideri e di sogni perché la mia testa ne è ancora piena zeppa mentre i miei pensieri sono ancora castelli da costruire. Gli anni potranno passare, ma vedremo chi la spunta!

Pensieri e parole in una serata di fine maggio

Accetto l’invito a cena in parrocchia, effettivamente è da un po’ che non condivido con loro.
Purtroppo tra una cosa e l’altra, tra cui i soliti che arrivano in ritardo, esco da casa con le prime gocce di pioggia che ultimamente mi fa compagnia durante la sera.
Le nuvole sono ancora lontane e non mi preoccupo molto: la parrocchia dista una ventina di minuti a piedi ma dovrei arrivare prima che faccia buio e inizi a piovere sul serio.
Sono più o meno a metà strada quandouna ragazza che sta camminando nella direzione opposta alla mia mi ferma chiedendomi informazioni.
Con il pensiero le rispondo (Scusa, ma ti sembro uno del posto? Cioè, siamo in Kenya, sono un bianco, che cosa mi domandi informazioni?…)
Fortunatamente il suo kiswahili è appena più raffinato del mio e riesco sia a capire che ha sbagliato matatu e deve raggiungere la casa dello zio, sia a risponderle che le mancano tipo quaranta minuti a piedi. La ragazza è vestita bene (e qui si vestono bene o per andare a messa o quando si mettono in viaggio) e sembra davvero spaesata. Sembra inizi a piangere quando mi chiede “E adesso, che cosa posso fare?”
(Pota, siamo in Africa: prendi e cammina) la mia mente inizia a tradurre questo pensiero quando inizia a piovigginare, diciamo, in maniera più consistente. (Ok, effettivamente inizia a piovere, è già buio, che la sua storia sia vera o meno, rimane il fatto che il tragitto non è dei migliori per una ragazza sola). Così tiro fuori trenta scellini e le dico “Ok (cazzarola), aspetta qui il matatu che va verso quella direzione”
Faccio per andarmene quando mi chiede con un tono da paura “Non puoi stare qui e aspettare il matatu con me?”
“(Tutti i casi sfigati me li becco io?) Mmm (abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno)Ok” e giù in quel momento una pioggia torrenziale, veniva giù a secchiate.
Sotto la pioggia e ormai al buoi, si gira e mi chiede “E adesso, che cosa facciamo?”.
“(Pota, prendiamo l’acqua. Che cosa vuoi fare!!) Non ti preoccupare, che tra poco passa un matatu”
Detto fatto… dopo dieci minuti di pioggia, arriva finalmente un matatu. La ragazza mi ringrazia e sale.
Bagnato fradicio, cammino verso la parrocchia. Non sono tanto distante, ma il cammino è sufficientemente lungo per rompermi le infradito, scaricare le batterie della torcia, scivolare in pieno in un fosso. Bella conclusione di serata, non c’è che dire.

1 a 1 e palla al centro!

In questi giorni mi sono sorpreso, scrivendo sms ad amici in Italia, di sentirmi tra disperazione e speranza. Il che vuol dir tutto e niente, immagino. Magari può sembrare anche una frasi d’effetto, ma diciamocelo in faccia: molto non dice se non la confusione di chi scrive.
Mi voglio spiegare, o almeno ci provo.

Settimana scorsa la disperazione

Chiedo ad uno dei nostri educatori di prendere le misure dei vetri da riparare nella casa dei ragazzi, avvertendolo di prenderle con cura in modo da evitare l’errore dell’ultima volta, quando il primo prese le misure in centimetri mentre il secondo andò ad acquistarle pensando che i numeri fossero scritti in pollici. Il risultato fu vedere arrivare dalla città il secondo che a fatica trasportava vetri giganti facendo attenzione a non romperli.
Da qui l’avvertenza di prendere le misure con attenzione. Dopo un’ora di misurazioni e impegno, l’educatore mi porta fiero un foglietto con le misure registrate: 11.5 pollici x 11.2 pollici
Razionalmente e con pazienza cerco di spiegare al nostro educatore (che tra parentesi è uno tra quelli che “ha fatto le scuole alte”) che i pollici non hanno decimali e che, a meno che non si parli di idraulica, è meglio evitare di usarli.
Lui non capisce e non lo nasconde fissandomi con uno sguardo perso nel vuoto. Mi improvvisa una teoria fisica sul senso del .5 e del .2, teoria che cade non appena gli faccio notare che il pollice è diviso in 16 parti uguali e non in 10. Ancora sorpreso per questa scoperta, ride e accetta di usare i centimetri.
Il tutto, ovvero l’acquisto di una decina di vetri da sostituire, ha preso un ora di misurazioni, trenta minuti di spiegazione, un viaggio a vuoto in città ed un secondo per l’acquisto, il mio ritardo ad un incontro e la mia riflessione che “non ce la faranno mai”. Quindi 1 a 0 a sfavore dello sviluppo sostenibile.

Oggi la speranza
Con i ragazzi sono andato in un ospedale qui vicino per un controllo di routine: parametri vitali, esami del sangue e delle feci, radiografia del torace, visita ambulatoriale.
A parte il vedere la spavalderia dei nostri ragazzi trasformarsi in timore e per alcuni anche in paura di fronte ad una siringa ad uno sfigmomanometro, sono stato felicemente accolto dall’efficienza del personale ospedaliero, in particolare quello dedicato agli ambulatori e ai laboratori.
Ognuno sapeva cosa fare e come farlo, manteneva il proprio ambiente di lavoro pulito e in ordine, e faceva rispettare le regole ai pazienti in modo da offrire un servizio migliore.
Beh, vedere tutte queste cose in un solo giorno e nello stesso posto, qui in Kenya, è stato per me veramente sorprendente.

Quindi: 1 a 1 e palla al centro!!


Nota: già che c’ero, ho chiesto parere al medico in merito ad una strana infezione al braccio sinistro. La guarda e fa un’espressione del tipo “Ah però!”, poi mi rassicura dicendo che sono solamente “ring worms”.

Pillole

P005) Short conversation in the office with Margaret
I: -How old are you?-
Margaret: -I’m nineteen. And you?-
I: -Ah, I’m very old, more than you. I’m thirty-
Margaret: - You look young! But you are very old.-
I: - …

P006) Chiedo a una delle nostre educatrici se anche lei, come gli altri, quest’anno vuole un agenda. Mi risponde che non è sicura e mi farà sapere quando la vorrà.
Io le ricordo che siamo alla fine di marzo… se aspetta ancora un po’…

P007) questa scusate ma non riesco pubblicarla... veramente senza spiegazione logica, ma neanche con la fantasia

P008) Uno dei nostri ragazzi, vedendomi tornare dalla comunione mangiando la particola: - Ma non è di plastica? -

Oscar e la dama in rosa

“Oscar e la dama in rosa”
di Eric-Emmanuel Schmitt
Ed. BUR


“- Rifletti, Oscar. A chi ti senti più vicino? A un Dio che non prova niente o a un Dio che soffre?
- A quello che soffre, ovviamente. Ma se fossi lui, se fossi Dio, se, come lui, avessi i mezzi, avrei evitato di soffrire.
- Nessuno può evitare di soffrire. Né Dio né tu. Né i tuoi genitori né io.
- Bene. D’accordo. Ma perché soffrire?
- Per l’appunto. C’è sofferenza e sofferenza. Guarda meglio il suo viso. Osserva. Sembra che soffra?
- No. È curioso. Non sembra che abbia male.
- Ecco. Bisogna distinguere due pene., Oscar, la sofferenza fisica e la sofferenza morale. La sofferenza fisica la si subisce. La sofferenza morale la si sceglie.
- Non capisco.
- Se ti piantano dei chiodi nei polsi o nei piedi, non puoi far altro che avere male. Subisci. Invece, all’idea di morire, non sei obbligato ad avere male. Non sai che cos’è. Dipende dunque da te.”

Invece questa Africa ...

“…certi giorni faccio davvero fatica a comprenderla, non riesco a trovare un senso nel suo essere e a vedere dove stia andando.
Per esempio guardiamo il quartiere dove siamo inseriti: sorge in una zona periferica di Nakuru fuori dall’anello urbano, sta nascendo e si sta formando seguendo la condizione sociale attuale keniota.
Le case in muratura circondate da alte mura difensive si piazzano senza permesso e impenetrabili ai bordi delle strade del quartiere. Dai loro cancelli in ferro sempre chiusi è difficile intravederne il cortile interno. Come moderna merlatura hanno taglienti bottiglie in vetro opportunamente rotte ed al tuo passaggio non manca l’abbaiare dei cani che fa eco.

Ma come in un ampio respiro, la skyline si apre grazie ad una casa in lamiera o in terra il cui proprietario ha recintato solamente con qualche palo e del filo di ferro. Da queste i bambini ti salutano sempre, anche se passi quattro o cinque volte al giorno. I più coraggiosi ti corrono incontro per godersi un saluto e un abbraccio. I migliori ti lasciano in ricordo sulla maglietta e tra i capelli macchie e appiccicose briciole su cui è meglio non indagare. Ma che gioia nei loro occhi.

E le scuole? Le molte scuole private sono costose e la retta fa da filtro permettendo solo a poche famiglie di mandare i propri figli. L’unica scuola pubblica (si riconosce dal fatto che è l’unica dall’aspetto decadente) è sovrappopolata anche rispetto agli standard africani.
La differenza, anzi la divisione è evidente: famiglie che iniziano ad essere benestanti si chiudono in casa e mandano i propri figli in scuole per pochi, le altre si arrangiano come possono e non tutti i figli vanno a scuola.

E così ti vedi la domenica in parrocchia la chiesa piena di gente ben vestita, che arriva in auto, prega devotamente, e magari ti lascia anche un’offerta per ingrandire o abbellire la chiesa… niente di male, no? Un po’ come nelle nostre parrocchie italiane.
Però questi pochi, che si dicono cristiani, e che stanno bene, continuano a star bene ed ad essere in pochi! Un po’ come nel mondo (e l’Italia non fa certo eccezione) dove i pochi che stanno bene continuano a stare sempre meglio e ad essere sempre più pochi.
Mi chiedo allora come stia crescendo questa società kenyota e che futuro potrà mai avere se, seguendo il modello capitalista occidentale, crea dentro se stessa divisioni economiche oltre a maturare quelle tribali che si porta dietro come valore aggiunto.

E allora mi viene da fare eco a quei pretacci che remano contro corrente, ai missionari etichettati come “comunisti”, agli ambientalisti “sovvertitori”, ai giovani del GIM che si incontrano nella preghiera: non seguiamo chi pretende di sapere ogni cosa perché spesso lui non sa proprio nulla, non perdiamoci nel circondarci di comodità e di futilità che non servono che a isolarci dagli altri e quindi anche da chi ci ama.
Giochiamoci sulle parole del Vangelo!
Ognuno seguendo il proprio essere e nel posto dove si sente chiamato… altrimenti come cavolo lo sistemiamo questo mondo. Certo non è facile, ma per iniziare basta un po’ di cristiana follia. Il resto è tutto un regalo!

[Dalla relazione trimestrale di servizio volontario]

Un abbraccio a tutti!

Gioia piena e solidarieta'

Un forte abbraccio a tutti, e una breve mail per augurarvi una buona Pasqua.

La settimana santa è iniziata per me sabato scorso quando ho tenuto il ritiro per i ragazzi e le ragazze.
Come al solito non ho avuto tempo di preparare nulla e ho improvvisato, ma ovviamente la versione ufficiale è “Non preoccuparti don Luciano, sono preparato, ho molte idee che integrerò con i ragazzi durante la mattinata di ritiro”.
Fortunatamente i ragazzi hanno partecipato molto bene, ognuno con la propria versione/confusione del Vangelo di Pasqua: c’è chi ha detto che “Pasqua è quando Gesù viene tentato nel deserto” o quando “Gesù va all’inferno a incontrare il diavolo e lo distrugge”.
Poco importa.
Ho detto loro, e lo voglio dire anche a voi, che per me Pasqua è NASCERE.
L’uomo non è un contenitore vuoto da riempire con conoscenze e idee attraverso l’educazione. L’uomo è già ricolmo dell’amore di Dio, pieno del progetto che Dio ha per lui e solo per lui. A noi la LIBERTÀ di fregarcene, restare chiusi e in un angolo per non dare troppo fastidio alla società, o scoppiare del Suo amore, aprirci con violenza e METTERCI IN GIOCO per quello che Lui ha scelto per noi.
Il Signore non potrà mai scendere dalla Croce se non Gli diamo spazio in noi, e resterà ancora lì: inchiodato ai polsi e ai piedi, affamato e sanguinante, con una corona di spine alla testa e un soldato che lo prende in giro con dell’aceto…


A tutti voi una felice Pasqua di gioia piena di solidarieta’!
Buona vita a tutti!

Gianpietro

Giornata di relax... me ne vado a Nyaururu

Il matatu impiega quasi un ora e mezza per arrampicarsi lungo la strada che da Nakuru sale verso le montagne vicine costeggiando i crateri spenti milioni di anni fa.
Arrivato, seguo le indicazioni per le Thompson Falls che dicono valga la pena vedere. Penso tra me che, essendo ormai alla fine di una lunga stagione secca, non è certo il tempo migliore per vedere le cascate, comunque mi lascio vincere dalla curiosità ed eccomi all’inizio del sentiero per le cascate.
L’ingresso costa 50 scellini per i residenti, 200 per i wazungu (noi bianchi). Credo sia una piccola ma giustificabile rivincita africana per la colonizzazione del secolo scorso e per lo sfruttamento economico attuale, comunque pago con un certo nervosismo e mi avvio lungo il sentiero.
Un ragazzo mi ferma chiedendomi se ho bisogno di una guida. Gli rispondo sgarbatamente di non preoccuparsi, penso di trovare da solo le cascate.

Seguo il sentiero e scendo fino al fondo valle, dove l’acqua si schianta con fragore contro le rocce. Resto per un po’ ad ammirare questa piccola meraviglia, cercando anche di stimare l’altezza delle cascate misurando il tempo di caduta dell’acqua (certe volte l’io ingegneristico non vuole proprio stare calmo e mi tocca assecondarlo!).
Risalgo il crinale e decido di seguire il sentiero che accompagna in quota il costone della valle spingendosi attraverso le montagne vicine.
Attraversando prati per il pascolo e piccoli appezzamenti ordinatamente piantumati per il rimboschimento, mi allontano sempre più dalla città fino a quando arrivo ad un bivio. Non avendo la minima idea dove porti uno piuttosto che l’altro sentiero, scelgo la sinistra (perché nel dubbio, sempre a sinistra).

Scavalco la collina ed ecco un’immagine tanto forte quanto l’odore che ne fa da cornice: il profilo dell’orizzonte non è più verde e definito da pascoli e boschi, ma continua delineato da mucchi e mucchi di rifiuti.
Il fumo che ne sale è tanto caldo quanto odioso.
Non so perché ma ho fermato i miei passi e resto a guardare.
Di lì a poco sento chiamare “Mzungu. Mzungu. How are you?”
A fatica riesco a distinguere tra i mucchi di rifiuti il ragazzo che mi ha chiamato, dopo di lui molti altri ragazzi gli fanno eco. Saltano fuori tra copertoni e stracci, taniche e bidoni arrugginiti, trascinando sulle proprie spalle un sacco contenente il “raccolto” della mattinata.

Per un ragazzo di dodici anni, questa condizione non è giusta! Non è giusta!!
Una crepa di rabbia mista dolore mi taglia il cuore.
Faccio il segno della Croce e chiedo al Signore perdono per i miei peccati che ogni giorno causano questa ingiustizia.
Possa davvero far nascere nel mio e nei nostri cuori tanta rabbia per le prepotenze e un immenso amore per il prossimo. Perché possa venire presto il Suo regno, come in cielo così in terra.

...

Sera di marzo. Il 17 per essere preciso, giornata dedicata a San Patrizio, e qualcuno ne starà approfittando per vendere più pinte di Guinness del solito.
Qui, in camera, sono al termine dell’ennesima giornata senza pioggia, con il suo tardare sembra voglia misurare la speranza di questa gente.
Ma è proprio in questi momenti di silenzio e di stanchezza che si fa più forte il credo nel Signore. In quel Signore vagabondo lungo le strade della Galilea.
In quel Signore coi sandali ai piedi, come i nostri ragazzi.
In quel Signore lontano da casa, da qualcuno accolto, da molti temuto, e da altri giustiziato.

Questa sera non me la sento di chiedergli la pioggia, perché Lui sa meglio di noi ciò di cui questo popolo ha bisogno.
Come questa terra ha sete di pioggia e si apre in lunghe crepe, si abbandona al vento che ne alza la polvere in lunghe colonne di aria calda come una preghiera al cielo ancora avaro di acqua.
Così questa gente ha sete di giustizia, quella equa, quella cristiana. Ma purtroppo nulla può contro un muro di corruzione all’interno del paese, una rete di paura sociale in cui si è intrappolata, e un muro ancora più alto che la tiene lontana dal benessere occidentale.

Ridendo e scherzando con i ragazzi, mi chiedo come si sentirebbero se vedessero, al di là di una parete di vetro, la vita di un ragazzo della loro età in Italia. Immagino che , dopo una ventina di minuti immobili con occhi e bocca spalancati, inizierebbero a incazzarsi e a domandarsi il perché “Lui si ed io no”.

E i ragazzi, questi che vengono dalla strada, sono davvero sgamati e sarebbe difficile intortarli con la balla che il nostro benessere è frutto di un diverso processo storico e promettendo che anche loro in Africa potranno raggiungere il nostro benessere sociale.
BALLE!!

Dati alla mano (tutti possono collegarsi e accedere ai siti ufficiali, anziché bruciare il proprio tempo con il grande fratello di facebook…) sappiamo che i nostri fratelli africani, sudamericani, indiani che vivono nella povertà estrema non potranno rispondere ai propri bisogni di cibo e acqua se prima un occidentale non si priverà delle propri comodità.

Allora, questa sera, la mia preghiera al Signore e' perché ogni povero possa sfamarsi di giustizia smettendo di continuare a vivere nell’illusione che un giorno, su questa Terra, lui potrà vivere come un fratello occidentale.

Pillole di Africa (*)

(*) Inizio oggi questa nuova serie di pillole. Sono brevissimi racconti dei piccoli accadimenti quotidiani o occasionali, veloci scambi di opinioni, botta e risposta spiazzanti che ogni volta mi hanno sbattuto in faccia la realtà keniota (e forse anche africana).
Ad ognuno costruire il proprio pensiero.

P001) L’insegnate di kiswahili: “Sai, non è bene usare il padre missionario negli esempi di grammatica. È ad un livello superiore al nostro. Metti che un giorno vuole controllare il tuo quaderno e vede che l’hai usato in alcune frasi. Beh, cosa potrebbe pensare?”

P002) Uno dei nostri educatori, ritenuto il più valido nell’organizzare e nel seguire le attività di agricoltura e di allevamento, osservando da lontano e con sguardo pensoso la pecora che aveva appena partorito, mi confida: “Sai Jan, se avessi dovuto scegliere tra tutte le nostre pecore, avrei detto che proprio quella non era in cinta”.

P003) Il nostro educatore mi conferma che non è bello usare persone di un livello superiore nelle frasi esempi di grammatica.

P004) La puntualità non esiste. Solamente Dominic l’elettricista rispetta l’orario. Peccato che sia sempre un giorno in ritardo

kiswahili per pochi

Come in ogni angolo del mondo, anche qui la prova per potersi infilare nella rete relazionale della comunità è lo studio della lingua locale. O meglio, della lingua più largamente parlata nella zona.
Qui a Nakuru si passa allora attraverso l’inglese e il kiswahili.
Se con la lingua inglese sto a galla e posso allontanarmi senza difficoltà dalla spiaggia della lingua italiana, con il kiswahili sono ancora aggrappato agli scogli e faccio attenzione che l’acqua non superi il livello della cintura.

Non potendo permettermi di assentarmi dal centro per un lungo periodo sufficiente ad imparare la lingua, la scelta è stata di farmi aiutare dall’insegnante che giornalmente fa scuola informale ai ragazzi del Boys Ranch e alle ragazze del Calabrian Shelter. I suoi modi gentili e la sua timidezza le hanno valso il soprannome di “Gestapo”: tutto un programma.

Per organizzare le lezioni, con tranquillità le dico che possiamo incontrarci al Boys Ranch e usare la stessa aula dove fa lezione coi ragazzi. Prima di rispondermi, si avvicina un po’ di più a me e con voce bassa mi spiega che non sarebbe il caso: “Visto che noi (cioè lei ed io) siamo ad un livello superiore a loro (cioè i ragazzi), è bene cambiare aula.”
Perplesso non tanto per la risposta quanto per la radicata convinzione con cui l’ha pronunciata, le rispondo che per me non è un problema e che per questioni organizzative non posso allontanarmi dal Boys Ranch.

Nonostante occupasse le prime ore del pomeriggio di un sabato caldo alla fine di una pesante settimana, la mia prima lezione è stata un successo.
Dopo le introduzioni di rito sulla lingua swahili, l’insegnate inizia la lezione scrivendo le vocali alla lavagna e spiegandomi la loro importanza nella lingua swahili. Poi le legge ad alta voce scandendole bene con un intonazione da maestra di prima elementare:
A E I O U

Le rilegge una seconda volta, poi mi invita a provare a leggerle. Io la fisso per capire se mi sta prendendo in giro o che, ma capisco dal suo sguardo non posso fare altro che eseguire l’ordine. Così inizio a leggere quanto scritto alla lavagna fingendo anche un po’ di fatica:
aa…A
eE
I
O
uu…U

“Bravo, ma prova ancora una volta”
Questa volta vado deciso e il suo sguardo si riempie di soddisfazione. Imparo proprio in fretta.

Si può scrivere “cacca” in un blog?

Mah, credo di si, al massimo censuratemi. Ma con me censurate anche tutta la cacca che viene pubblicata dall’informazione “pubblica” italiana oramai sotto il controllo privato. Di un privato… ma questo merita un discorso a parte in uno spazio tutto suo, a seguire vi scrivo un po' come la penso in ''Sono preoccupato''.

Comunque si diceva, la settimana appena trascorsa ha avuto un inizio di cacca. Letteralmente. Ho passato il martedì mattina in bagno a consumare carta igienica, per un giorno non ho proprio toccato cibo e per il resto della settimana mi sono sentito davvero fiacco.
Conscio di questo, ho controllato frigorifero e dispensa (vista la scarsezza, non ci è voluto molto) per vedere quale cibo mi abbia regalato questa bellissima esperienza. I possibili vincitori sono stati:
- un arancia al limite estremo maturità
- un formaggio con la data di scadenza cancellata
- del pane confezionato in un sacchetto rattoppato con del nastro adesivo
Opto per la prima, visto che gli altri due candidati sono ormai presenti nella mia dieta da settimane e non hanno prodotto grossi “inconvenienti”.
La prossima volta starò più attento.

SONO PREOCCUPATO

Si, davvero preoccupato. Sapete no, come quando avere un pensiero che non vuole essere messo da parte. Vi lascia svolgere il vostro lavoro, vi lascia studiare, ma non vi permette di essere concentrati completamente perché c’è sempre quel tormento che vi assilla.
Dopo giorni inizia anche a darvi fastidio ma, come un sassolino nella scarpa quando avete fretta, non potete fare altro che portarvelo dietro.
Beh, provo a dividerlo con voi. Mal comune mezzo gaudio.

Non riguarda il Boys Ranch e i ragazzi appena arrivati dalla strada con il loro grande bisogno di affetto e di amore. Non riguarda la solitudine che l’Africa amplia a tal punto da confonderti il cammino come nebbia in alta quota.
Sono preoccupato per l’Italia e per il clima sociale che si respira.

Parto dalle notizie che mi giungono dall’Italia.
La maggioranza al Governo, o meglio la minoranza visto che si tratta solamente di una persona, alla quale inspiegabilmente è concesso di controllare l’informazione pubblica e privata, sembra avere carta bianca nel fare e disfare le leggi in faccia anche ai principi costituzionali.
Piccoli tentativi di protesta pacifica vengono prima sedati a suon di botte, poi schedati come tentativi di sommossa da parte di gruppi violenti.
La gente elegante, quella borghesia industriale che venera la maggioranza politica, nonostante la raffinatezza dei vestiti che indossa, esplode in violenza verbale e fisica contro lo straniero. Si scherma il volto con creme e profumi costosi, ma trasuda falsità. Forse ha dimenticato i giorni in cui i propri padri e madri combattevano con la povertà di ogni giorno.
Forse ha perfino dimenticato il messaggio evangelico, che gocciola Amore e Speranza. E il Suo insegnamento:
mettere al centro la volontà di Dio e non la propria, amare il prossimo e incontrarlo nel dialogo, vivere la comunità con spirito di convivialità perché ci si possa arricchire nelle differenze.

Se qualcuno fa finta di niente o si copre le spalle con un mantello tessuto con ipocrisia e ambiguità, allora sta a noi vivere la Speranza.
Se è vero che chi controlla l’informazione controlla anche l’opinione pubblica, è anche vero che ognuno è dotato di senso critico per capire che solo le pecore seguono il gregge.
Se è vero che “non possiamo fare altro che sottostare alle leggi consumistiche della società perché questa cresca”, è anche vero che esistono in tutta Italia esempi di comunità di resistenza guidate da persone che hanno messo al centro del proprio lavoro l’interesse comune. Sono atei, laici e religiosi.

Nell’ottobre scorso in Italia ho respirato questa aria di Speranza e di Impegno. Spero che non sia stata spazzata via dal vento gelido dell’inverno. Anzi, prego che la neve abbia riparato quei semi di amore perché possano germogliare e crescere con il primo sole della primavera.
A noi coltivarli. INSIEME!

Vi lascio con una preghiera di don Tonino Bello. Scriveva:

Santa Maria, donna dei nostri giorni,
liberaci dal pericolo di pensare che le esperienze spirituali vissute da te duemila anni fa siano improponibili oggi per noi, figli di una civiltà che, dopo essersi proclamata postmoderna, postindustriale e postnonsochè, si qualifica anche come postcristiana
.”

Don Tonino scriveva così nel 1993, negli ultimi suoi mesi di vita terrena.
Chissà se vedesse dove siamo arrivati…
Chissà come definirebbe l’attuale società…

Disinfettante... industriale

Si lavora e si suda, le mie mani da ex-impiegato hanno ormai dimenticato la dura fatica di quelle giornate da giardiniere passate a spalare terra o letame.
Anche qui tagli e abrasioni non hanno aspettato molto ad arrivare, aiutate dal fatto che indosso sempre i sandali, a parte quando gioco scalzo coi ragazzi. E così oggi pomeriggio eccomi in farmacia a cercarmi un disinfettante.

Il commesso è talmente presente che passano minuti prima che si accorga della mia presenza. E sono l’unico cliente nel negozio.
Alla mia richiesta, lascia ancora per qualche secondo il suo sguardo nel vuoto, poi con una lentezza da record flette le ginocchia e si china per poter raggiungere i cassetti sotto il banco. Ne apre uno, passa con il dito e con lo sguardo le scatole che contiene. Poi lo richiude ed apre il cassetto appena sopra per ripetere lo stesso metodico controllo.
La mia mente intanto si assenta e inizia a canticchiare un allegro tra-la-la.

Dopo non so quanto tempo, appoggia sul banco una piccola tanica semitrasparente contenente un litro circa di liquido violaceo. Dalla scritta stampata si riesce appena a leggere il nome “Methylatel Spirit”. Ipotizzando e temendo la prontezza di risposta del commesso, evito di fare domande, pago e me ne esco.

Questa sera, dopo aver tolto sabbia e terra dai tagli, stavo per versarci il disinfettante, quando inizio a leggere il resto di quanto scritto sul contenitore.
Dopo la scritta “Methylatel Spirit” a caratteri grandezza pro-miopi, le parole riescono a farsi più piccole, ma avvicino la confezione agli occhi e alla luce della lampada. Riesco a leggere. “Altamente infiammabile e velenoso”. E qui allontano immediatamente a distanza braccio la confezione, ed inizia a nascere qualche piccolo dubbio sull’usarlo o meno.

Continuo a leggere:
da usare come: disinfettante” va bene allora, dai. Diffidente io a pensare male del commesso.

Continuo a leggere:
da usare come: solvente clinico,
lozione dopobarba,
disinfettante per cibo,
solvente industriale” …mah…
“solvente per lo stampaggio,
liquido di raffreddamento industriale, etc


Cosa faccio,provo?

Tema: CARO 2009 ...


Caro 2009,
o forse è meglio che ti chiami “Carissimo 2009”, così forse ti sarò più simpatico. Non so cosa mi porterai di bello, allora ti scrivo questa lettera perché così magari non sbagli e mi porterai un po’ di cose che mi piacciono. Non ti chiedo dolci e giochi, ma se me li porti sarò molto contento.

Il tuo fratellone 2008 mi ha portato moltissime cose, alcune gliele avevo chieste altre no, alcune molto belle ma altre molto bruttissime.

Te, scusa se te lo dico, ma hai già iniziato “con il piede sbagliato” come dice la mia mamma. A Gaza gli israeliani lanciano bombe sui palestinesi ma non ho capito perché nessuno li sgrida, in Africa i politici si riempiono i salvadanai mentre i bambini non hanno cibo e in Italia Silvio è ancora a capo del governo.
Ho pensato che forse hai voluto portarci prima le brutte cose… ma sbrigati a portarci quelle belle! Altrimenti la gente diventa triste o peggio ancora accetta questa realtà come normale e la lascia passare. E allora lascerà passare anche te, e quando cambierà di nuovo il calendario non si ricorderà più di te.
Quindi se vuoi farti ricordare e non passare inosservato, stupiscici con qualcosa di bello. Sono ancora piccolo, ma posso dirti cosa secondo me serve in questo mondo:

uno) tanto amore a tutti gli uomini
due) l’acqua tutti i giorni e a tutti i bambini
tre) un minimo di intelligenza a chi decide per gli altri
quattro) fai scomparire per magia le bombe, i cannoni e anche le pistole. Perché mi sa che se ce le lasci io non riuscirò a diventare vecchio.

Se poi non mi porti tante sorprese come il 2008, non fa niente non ti tengo su il muso. Ecco, ti ho scritto quello che volevo e ora sono anche un po’ stanco perché è sera tardi e oggi pomeriggio ho giocato a pallone.
Ti scrivo un’altra lettera quando la maestra ci darà per compito.

Gianpietro

una giornata davvero speciale

Nakuru

La luna illumina la campagna,
come volesse tenerle compagnia per la notte



La sera è una di quelle ventose che ultimamente accompagnano il finire delle mie giornate. L’aria che arriva forte e pesante dalle colline di Dundori sbatte violentemente contro le pareti della casa, come se volesse entrare anche senza permesso.
Ed io mi coccolo nella mia tiepida cameretta tra una calda tisana e della buona musica. Quale miglior momento per raccontare la mia giornata tutt’altro che calma come questo suo finale.

Sveglia mattutina alle quattro per poter andare di corsa al Boys Ranch, in tempo per permettere all’educatore di turno di uscire di buon mattino per una homevisit e di tornare in un orario decente.
Alle cinque arriva la sveglia anche per i ragazzi, e via che si parte con i lavori. Ad ognuno il suo compito: chi la pulizia della camera, chi quella della cucina, chi quella di accendere la stufa per preparare l’acqua calda per lavarsi. E chi si mette a lavare i piatti della cena, visto che non l’ha fatto la sera precedente per… diciamo che la mancanza di voglia ha incontrato la permissività dell’educatore.

Così tra lavoro e preghiera arrivano le otto e trenta.
Tutti pronti per la scuola informale? No, perché si è pulito tutto tranne che l’aula per le lezioni (che fa anche da sala da pranzo, da cappella per la preghiera e da risposta a qualsiasi bisogno).
Quindi spazzolata veloce al pavimento, riordino di tavoli e sedie ed ecco tutti e tutto al proprio posto. Tutti tranne uno dei ragazzi che, rendendosi conto che i pantaloni che aveva in dosso non erano neanche lontanamente puliti e che degli altri si poteva solo immaginare il colore, si è messo in fretta a pulirne un paio.

Una discussione lampo e a senso unico con il direttore misura la mia pazienza.
Pianifico le riparazioni necessarie con l’idraulico, la cui tempistica per arrivare dalla propria abitazione che sta dall’altra parte della strada supera inspiegabilmente l’ora e un quarto.
Così per incontrare il saldatore concludo che è meglio che passi io da lui, visto che, abitando appena più distante dell’idraulico, in proporzione potrebbe impiegare anche due ore per arrivare.

Rientro in ufficio giusto per sistemare due cose (una delle quali è un buon caffè), e decido che è ora di sistemare i tavoli delle ragazze.
Tra carteggiata e verniciatura arriva l’ora di pranzo, fortunatamente oggi vado in parrocchia: costa un quindici minuti di cammino sotto i raggi del sole schermati dalla polvere, ma ne vale la pena!

Il pomeriggio mi permette di lavorare ancora un tavolo prima che una telefonata mi avvisi che Keri , una delle ragazze del Calabrian Schelter, si è fatta male a scuola. Di corsa mi precipito al Boys Ranch per chiedere ad una delle nostre volontarie di accompagnarmi a scuola. Lei, con tutta calma, mi dice che Ramton (uno dei nostri ragazzi) è già andato a scuola a prendere Keri, visto che questa si è rotta una gamba.
Tutt’ora non capisco ancora la connessione tra il suo calmissimo tono di voce e il contenuto delle sue parole.
Keri piange (e con lei quasi pure Ramton, che si è accorto che il peso della ragazza non è decisamente inferiore dal suo). Inutile chiedere ai maestri come e quando sia successo. A turno portiamo in braccio Keri fino alla clinica.
La dottoressa, dopo aver finito di raccogliere la verdura nell’orto, visita Keri dando come responso medico un semplice stiramento, la prognosi è di un giorno con l’avvertenza che “Vediamo come sta domani, se non riesce ad appoggiare il piede, allora vuol dire che la cosa è più seria e bisogna farle i raggi”. Rincuorati dalla sua professionalità, torniamo al Calabrian Shelter appena prima che faccia buio. Keti non ha mai smesso di piangere.
Giro serale di controllo al Boys Ranch.
Arrivo poi finalmente a casa con la voglia di una doccia calda e di una cena veloce e leggera (che va molto in accordo con la mia spossatezza), prima però voglio salutare Keti. La trovo a letto con le altre ragazze che le fanno compagnia e fanno a gara per portarle acqua o qualsiasi altra cosa le serva. La più grande di loro mi chiede di leggerle il Vangelo.

“Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.
Prendete il mio giogo sopra voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime.
Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”
[Matteo 11, 28-30]

Che gioia ho provato nel leggerlo proprio oggi.
Quando la fatica del giorno ha invaso tutto il tuo corpo che hai il solo desiderio di un po’ di ristoro, ecco che il Vangelo ti arriva dentro e ti apre il cuore. Certe giornate questo giogo è veramente duro da portare, certe volte sembra proprio di non riuscire a fare un passo in più. Ma se abbiamo posto gli altri al centro del nostro fare, se sono i bisogni degli altri a pianificare la nostra giornata e il nostro lavoro, allora la stanchezza viene cancellata dalla gioia. E ci si addormenta chiedendo nella preghiera di ricevere un nuovo giorno per potersi spendere per gli altri. Per dare loro l’affetto che il Signore ci ha donato a piene mani.

La musica è finita senza che me ne accorgessi, e della tisana ne sono rimasti solamente un buon sapore in bocca e un leggero profumo nella stanza, che purtroppo non copre quello dei vestiti indossati oggi…

Buona notte.

(trattandosi di minori, i nomi citati in questo post sono stati volutamente cambiati)

Un forte abbraccio a tutti !!

Nakuru, 02 gennaio 2008
…ops 2009!!


Finalmente eccomi ad aggiornare il blog. È trascorso così tanto tempo dall’ultima volta che mi sono raccontato che a fatica mi sono ricordato la password (l’ho azzeccata dopo tre tentativi, niente male per la mia memoria).
Eccomi qua con una gran voglia di dare scritto ai miei pensieri, guardandomi alle spalle vedo così tante cose che ho veramente l’imbarazzo nello scegliere quali descrivere. Facciamo che diamo una veloce carrellata, un passaggio di penna leggero sulla carta per poter inquadrare la situazione, permettermi di capire cosa ho fatto negli ultimi mesi e cercare di definire cosa fare nei prossimi.
Inizio a scrivere con tanta voglia ma anche con un po’ di fatica. Sarà che ho mille pensieri per la testa e non riesco a concentrarmi, sarà che è molto che non scrivo e l’analfabetismo di ritorno sta avendo la meglio su di me, o sarà che sto diventando vecchio e sento ogni azione come un masso da spingere. Fate vobis, io finisco con queste elucubrazioni e provo a vedere dove mi ha condotto i mio cammino.

La prima settimana di settembre è stata una toccata e fuga a Nakuru. Arrivato dall’Uganda, ho avuto giusto il tempo per svuotare lo zaino alla missione e riprendere il viaggio fino a Nairobi. Da lì un fantastico volo della compagnia egiziana EgyptAir mi ha portato in Italia.
Per chi volesse un consiglio, va benissimo risparmiare sui voli soprattutto quando si paga di tasca propria, ma certo non mi sarei aspettato crepe della carenatura interna dell’aereo chiuse con nastro adesivo e la hostess che mi istruisce personalmente sull’apertura della porta di emergenza, visto che sono quello seduto più vicino allo sportello. Di mio ho chiesto alla russa che avevo accanto, che stava “controllando il fondo” del mignon, di svegliarmi in caso dovessi aprire la porta. Lei si è fatta una bella risata e ha continuato il suo lavoro di controllo.

Le vacanze in Italia sono state qualcosa di meraviglioso. Non avevo mai trascorso le vacanze a casa, ed è stupendo vivere la sensazione di avere tutto il tempo che si vuole per incontrare gli amici più cari, passare più tempo a casa, organizzare le proprie giornate con il solo desiderio di incontrare gli altri.
Peccato che, da che vacanza è vacanza, l’orologio gira più in fretta e ti ritrovi a rimandare il volo di rientro in Kenia per poter abbracciare gli amici (e soprattutto le amiche) che non hai ancora visto e inizi a incastrare gli appuntamenti per poter salutare tutti, e vorresti regalare loro più tempo, e vorresti dare loro più ascolto. Ma “tempo, comunque vadano le cose lui passa”, e sei nuovamente a preparare lo zaino, con la gran voglia di vivere le tue scelte che combatte con la sana paura che accompagna ogni partenza.

Ma dove sono finito ora???

Nakuru, quarta città del Kenia per popolazione e grandezza. Che detto così sembra una cosa in grande. In realtà è una cittadina con un centro commerciale e politico paragonabile alle nostra Seriate. Non sapete dove è Seriate?! Ecco, allora rendetevi conto della grandezza e dell’importanza di Nakuru.

Ho passato i primi due mesi della mia vita keniota nel costruirmi la casa. Il cantiere è stato una cosa indefinibile, mi ha fatto vivere una miscela di sensazioni a volte contrastanti seppur in linea tra loro. Lavorando insieme ai kenioti puoi comprendere quante potenzialità hanno, avverti la loro voglia di migliorarsi e ti senti pronto ad aiutarli… ma quando ti assenti dal cantiere e al ritorno ti ritrovi che ti hanno murano un rubinetto, fissato un interruttore esattamente dietro la porta e tagliato i travetti cosicché la veranda non sarà larga due metri ma solamente trenta centimetri, allora vorresti proprio…
Comunque ora la casa è pronta. Mi concedo un po’ di tempo per pulirla prima di scattare qualche foto.
Ovviamente ho dovuto occupare una zona del parco naturale di Nakuru e deviare il corso di un fiume, ma sono riuscito a trasferirmi prima di Natale ed ora eccomi qui nella mia stanzetta a scrivere questo mix di serietà e… beh, ad ognuno trovare la definizione appropriata.

A parte gli scherzi, che insieme allo sbattere delle finestre mi aiutano a stare sveglio, sono arrivato a Nakuru per aiutare i missionari “Poveri servi della Divina Provvidenza” nelle attività sociali che hanno iniziato poco più di due anni fa. Valutate le peggiori carenze dei servizi sociali locali e le maggiori esigenze per quanto riguarda la cura dei ragazzi, sono stati realizzati tre centri in risposta a tre diverse bisogni:
Drop-in Center: per un primo contatto con i ragazzi di strada e la valutazione della situazione di ciascuno.
Boys Ranch: due case-famiglia per il recupero dei ragazzi di strada.
Calabrian Shelter: per l’accoglienza temporanea di ragazze vittime di violenza e abuso sessuale.

Ovviamente vi racconterò meglio. Intanto, avendo superato i limiti di età per essere recuperato nel Boys Ranch, sono stato accettato come amministratore-contabile-educatore-animatore-magazziniere-guardiano-falegname…