Grazie...

... a quelli che partono con la voglia di stare, a quelli che vivono il Vangelo prima di predicarlo,
a quelli che non smetteranno mai di sognare, a quelli che l'Amore è solo con la maiuscola,
a quelli che si accettano come sono, a quelli che piangono ad ogni partenza,
a quelli che Africa e Gioia si confondono ogni giorno, a quelli che vivono di emozioni,
a quelli che non smettono di camminare, a quelli che non si abbandonano mai,
a quelli che pregano, a quelli che sul piedistallo non ci vogliono stare, a quelli che Dio non è morto,
a quelli che si vive anche senza moda, a quelli che pensano con il cuore,
a quelli che non scelgono per comodità, a quelli che soffrono e poi ti guardano negli occhi più ricchi di prima,
...e anche a quelli che "Gianpi ci hai rotto con questi ringraziamenti"

Chikuni (Zambia), la prima settimana

Una calura soffocante, quella che già in tarda mattinata ti avvolge per poi accompagnarti fino al tardo pomeriggio. Lunghe ore in cui l’aria pare quasi assente, quasi anche lei avesse cercato l’ombra di un mango, I cespugli intorno al fiume o qualche veranda dove nascondersi dal sole e aspettare sera. Di certo non ha scelto la mia veranda.
Ero stato avvisato del caldo e dell’effetto che ha sulla forza di volontà di ciascuno: positivo se lo si combatte e ce se ne esce vincitori continuando a svolgere le proprie attività, negativo se nelle ore più calde ci si annulla abbandonandosi in casa tra lo studio e il frigorifero con la ferma convinzione che, cascasse il mondo, non si esce prima delle quattro. Personalmente, in questa prima settimana siamo 1 a 0 a favore del caldo. Ma non pensate male: fa parte di una mia tattica, uno studio dell’avversario per poi prenderlo in contropiede…siete quindi pregati di non pensare che uno vada in Africa per poter fare la pennichella pomeridiana! Comunque, già che siamo in tema, vi sarei grato se non mi veniste a bussare alla porta di casa o se non mi telefonaste tra l’una e le quattro del pomeriggio. Grazie.
Per dovere di cronaca, anzi, mi correggo, per volere di cronaca, il viaggio è stato tanto spassoso quanto un film nigeriano (per chi non avesse mai visto un film nigeriano, beh… si ritenga fortunato ed eviti ogni conoscenza o occasione che lo possa portare a tale vissuto). Sia inteso, non mi ha mai preoccupato e nemmeno annoiato viaggiare in aereo da solo: cammini per I terminals dove hai le coincidenze, chiacchieri un pò con gli altri passeggeri, curiosi quà e là per I negozi nell’area check-in (dove è stata registrata la più alta concentrazione di beni di consumo inutili, e quindi dannosi allo spirito), ti bevi un caffè per ammazzare il tempo. Ecco, tutto questo quando viaggi di notte, il tuo volo è stato frammentato in quattro voli brevi, sosti in terminal così piccoli che ti puoi mettere in qualsiasi punto per vederne ogni angolo, oppure sosti in terminal pieni di negozi e punti di ristoro ma la tua coincidenza cade tra l’una e le cinque del mattino e a quell’ora col cavolo che trovi più di due saracinesche alzate… ecco, tutti quegli svaghi che ti assicurano un viaggio non eccitante ma quantomeno piacevole, non hanno facile applicazione.
Sempre per volere di cronaca, la mia sistemazione qui a Chikuni è davvero carina e nuova: l’alloggio che i padre gesuiti mi hanno trovato per questi tre mesi è una semplice e carina abitazione all’interno del college per insegnanti “Charles Lwanga”. Ora, per noi poveri studenti italiani, la realtà del college risulta essere un pò lontana dal nostro vissuto. Si tratta di una piccola cittadina dove non solo gli studenti, ma anche professori e bidelli praticamente vivono. Se vi ricordate “L’attimo fuggente”, avete più o meno l’idea. Ecco, prendete questa idea e datele un formato Africa! “Charles Lwanga” è davvero immenso. E vi aiuto a partecipare al mio stupore aggiungendo che impiego lo stesso tempo a raggiungere d’abitazione il cancello di entrata, che da andare dall’inizio alla fine di Barzana.
Come da modello inglese, non mancano di certo campi da calcio, pallavolo e pallacanestro e così ogni mattina mi posso concedere una corsetta prima della colazione. Altra nota positiva, condivido la casa con Mono, un giovane ragazzo che lavora come speaker alla radio locale... e chi non ha mai sognato di vivere con un DJ, dai!
Un abbraccio, ora vado a preparare qualcosa per cena.

missione...semplicemente stare

Dopo uno sguardo al passato (Marco, è metaforico! Non iniziare a guardarti in giro…), ora un tentativo di guardare in avanti. Come cristiani, o come semplici e folli sognatori, non possiamo smettere di camminare verso i nostri sogni. In particolare come cristiani non possiamo smettere di credere in Lui e nemmeno in noi, come figli capaci di costruire un presente più equo per tutti. Lo dobbiamo a noi stessi e ai nostri figli: credo che il nostro impegno verso un mondo migliore possa essere il regalo migliore che possiamo fare loro. E questo poco cambia se siamo credenti o meno.
In una mattina di pioggia, camminando riparati sotto un lungo porticato, Sara mi confidò: “Un giorno verrò anche io in Africa”, ed io:“Che cosa ti piacerebbe fare?”. Lei, semplicemente, mi disse quello che io ho impiegato tre anni per capire: “Mah…semplicemente stare con loro.”
Vivere lo stare sembra tanto semplice: potrebbe essere sufficiente fermarsi in un luogo, rimanere in una comunità a vivere per un po’ di tempo, andare d’accordo o meno con il vicino e fare magari qualche pranzo insieme. Questo potrebbe essere uno stare che a qualcuno potrebbe bastare: fermarsi–rimanere–andare d’accordo. Ma per chi parte come operatore umanitario (che sia volontariato o meno) ci si fa anche carico della responsabilità di una relazione di aiuto che, come visto prima, significa giocarsi in un rapporto di educazione.
Se partiamo dal significato di educazione come sollecitare la persona ad intraprendere un cammino di libertà (intesa come costante tensione al vero e alla verità di se stessi), allora l’educazione non può essere una pratica di dominio e nemmeno strumento di oppressione. Non un “depositare” la conoscenza da un educatore che sa agli educandi che non sanno. Paulo Freire (pedagogista brasiliano del secolo scorso) evidenzia senza mezzi termini il rischio che si corre nell’impostare una relazione educando-educatore univoca.

“Se l’educatore è colui che sa, se gli educandi sono coloro che non sanno, spetta a lui dare, consegnare, trasmettere il suo sapere a loro. Sapere che non è “esperienza fatta”, ma esperienza narrata o trasmessa.
È normale quindi che in questa educazione “depositaria” gli uomini siano visti come essere destinati ad adattarsi. Quanto più gli educandi diventano abili nel classificare in archivio i depositi consegnati, tanto meno sviluppano la loro coscienza critica, da cui risulterebbe la loro inserzione nel mondo, come soggetti che lo trasformano”
[ Paulo Freire, « la pedagogia degli oppressi »]

Quindi se educare è solamente una fredda trasmissione di conoscenze, non sarà mai a beneficio degli educandi. Il processo educativo, il cui obiettivo è la liberazione dell’educando, deve essere “problematicizzante”.

L’educazione che proponiamo a coloro che veramente si impegnano per la liberazione […] non può essere depositaria di contenuti, ma problematizzante per gli uomini nei loro rapporti col mondo. L’educazione problematizzante, contrariamente a quella depositaria, è intenzionalità, perché risposta a ciò che la coscienza profondamente è, e quindi rifiuta i comunicati e rende essenzialmente vera la comunicazione
.”[ Paulo Freire, « la pedagogia degli oppressi »]

Quella che Freire definisce come “educazione problematizzante” non è solo un aiuto agli educandi nel raggiungere un maggior grado di protagonismo nelle loro vite, ma una crescita comune tra educando e educatore i quali insieme riescono a superare la loro contraddizione necrofila in cui l’educazione depositaria si arena. Educatore ed educandi vivono un atto di conoscenza e coltivano una profetica speranza nelle capacità dell’altro. Non sentendoci unici possessori della conoscenza e sentendo forte la nostra incompletezza in quanto uomini, crediamo nelle potenzialità dell’altro e nell’importanza del cercare di “essere” di più e “in comunione”. Se scegliamo di non credere in questo, ci appiattiamo nello sterile “avere di più”: più sapere, più lavoro, più progetti, più esperienze sul proprio curriculum.
Una volta focalizzato che l’educazione di cui stiamo parlando è quella problematizzante, il secondo punto riguarda gli strumenti che non possiamo fare a meno di scegliere. Parlando di relazione interculturale e di relazione di aiuto, dobbiamo a mio avviso porre molta attenzione alla comunicazione, linguaggio verbale e non verbale.
Dialogare, in una relazione di aiuto, non può non prescindere dall’ascolto attivo: RICONOSCERE LE PROPRIE EMOZIONI per non rimanere imprigionati nelle proprie matrici percettivo-valutative; operare un’indagine variazionale per NON GIUDICARE LA VISIONE DELLA REALTÀ DEGLI ALTRI, ma provare a vederla dal loro punto di vista; cercare di VIVERE I CONFLITTI CON CREATIVITÀ ed umorismo per non far sì che le relazioni si fossilizzino in muri privandoci della ricchezza di una relazione vera e di aiuto reciproco.
Come dire, tre punti facili da seguire, no? Beh, l’importante è avere chiara la meta, la strada che poi seguiamo si traccia ogni giorno, pregando di non perdere la speranza di raggiungere un giorno i nostri sogni.
E’ importante precisare che la comunicazione non è solamente verbale, ma comprende tutto il linguaggio corporeo fatto di gestualità, di toni di voce, atteggiamenti e posture. Va curato anche quest’aspetto non verbale, specialmente quando si è inseriti in un contesto culturalmente diverso dal proprio: come il tempo speso per imparare una lingua nuova ci fa notare che suoni per noi senza senso per l’altro hanno un significato preciso, così diventa chiaro che uno stesso gesto ha per l’altro un significato e un’importanza diversa da quella che noi gli attribuiamo.
Un giorno mi venne fatta un’ osservazione dagli educatori: ogni tanto quando arrivo al centro non li saluto. Tra me e me pensai un po’ scocciato: “Non è vero, li saluto sempre!”; ma ovviamente questa posizione di puntare i piedi avrebbe fatto sentire l’altro incompreso e, siccome dipendente (e oppresso nel momento in cui inserito in una relazione dittatoriale instaurata dal suo datore di lavoro), si adatta alla mia visione accettando che la sua osservazione non sia vera. Epilogo davvero deludente. Certamente mi sono sentito irritato perché incompreso e frainteso, scocciato per aver ricevuto un’osservazione non proprio positiva ...ecco come le emozioni ci fanno capire quando ci avviciniamo ai confini delle nostre cornici… occasione per provare ad allontanarci da noi stessi e vederci dal punto di vista dell’altro… qui in Kenya, come in tante altre culture, il saluto non è tale se non c’è un contatto fisico, una stretta di mano o un abbraccio. Non ha alcun valore per l’educatore l’arrivare ad una riunione e salutare i presenti già seduti solamente con un good morning.
Anche il nostro stile di vita diventa comunicativo e acquista un ruolo importante nella relazione di aiuto. Anche così comunichiamo quanto desideriamo stare con, quanto crediamo nell’altro e nell’importanza del suo cammino di libertà, quanto vediamo nel nostro “vivere al confine” uno strumento per educare ed educarci. Allora stiamo bene attenti a come viviamo, altrimenti le nostre parole sarebbero incoerenti e la nostra prassi vuota, rendendoci falsi e ipocriti.

che concezione abbiamo dell'uomo?

La missione che vorrei vivere, quindi, è un cammino educativo mano nella mano. Ma …con chi? Chi è questo “altro”?

L’ idea che ci si fa dell’educazione e dell’educatore dipende ovviamente dalla concezione che si ha dell’uomo e del suo destino
” [Essai de philosphie religieuse Lethielleux, Paris, 1903, p. 233).]

Innanzitutto nel momento in cui parliamo di educazione, dobbiamo riferirci all’educando nella sua integrità. In più, come cristiani, abbiamo “l’aggravante” di non poter considerare l’uomo se non come noi stessi: amarlo nella stessa misura con cui amiamo noi stessi, volerci relazionare con lui nella stessa misura con cui desideriamo fare con noi stessi, scavare nella sua profondità come vorremmo scavare nella nostra. Molti pedagogisti affermano che il rapporto educativo si fonda su una relazione interpersonale in cui sono implicate non solo le conoscenze, ma soprattutto le dinamiche delle personalità di coloro che vi partecipano. Personalità che non possono mettersi in gioco se non nella loro complessità e integrità.
Quindi non ci è concesso, come laici o come atei, di vivere la missione come un superficiale “andiamo ad aiutare i poveri”, “apriamo un altro progetto per avere più beneficiari” perché cadremmo ancora una volta nel vedere l’altro solo come povero da aiutare e non saremmo in grado di costruire una relazione autentica. L’altro non è solo “il povero” o solo “il beneficiario”, l’altro è uomo, l’altro è donna, figlio o padre della sua famiglia, membro attivo o meno della sua comunità, credente di questa chiesa piuttosto che dell’altra, con tutto il suo bagaglio di conoscenze e con una fragilità di emozioni come la nostra.
L’altro è persona e, come tale, ricca di capacità e di impegno per migliorarsi. A noi la possibilità di camminare con lui. E lo SVI in questo è stato ricco di insegnamenti: pur senza parlare apertamente di educare, ha disegnato la figura del volontario come un animatore di gruppo. Che non vuol dire fare canti e balli per occupare il tempo e sentirci allegri, ma che significa far nascere e crescere un gruppo come “contesto psico-sociale assai ricco di stimoli e di possibilità in ordine alla crescita, alla maturazione e all’apprendimento” [Manuale per animatori di gruppo” K. Vopel]

essere razzisti in Africa

In Italia credo che ormai non possiamo più nasconderci: i pregiudizi verso lo straniero sono sempre tanto evidenti quanto radicati. Classiche le chiacchiere da bar (che diventano allarmanti se ascoltate in un comizio politico, deludenti se sentite tra la gente appena uscita da Messa), tutte riferite all’albanese o al nord africano di turno. Una classificazione bigotta che dimostra a mio avviso tre fatti: un senso di ripulsa di quello che non si conosce, una paura nel guardare e mettere sotto giudizio i propri paletti, una grande ignoranza del gregge.
Lo stesso purtroppo vale anche qui in Africa, dove davvero non avrei pensato di scontrarmici. Certamente non si tratta dello stesso tipo di pregiudizio, ma tanto come il primo porta ad una rigida classificazione che frena uno scambio, limitando dal principio una reciproca educazione. Con l’aggravante che qui siamo a casa loro. Nel momento in cui si parte dal classico senso di bontà e di paternalismo positivo ma cieco, questo stesso “santo” atteggiamento non permette di riconoscere nell’altro la capacità di scelta di cui è dotato e creerà un bel terreno fertile per un atteggiamento di di ripulsa e di ostilità, fino alla discriminazione.
Africa. Zona povera. L’ONG di turno arriva e vede che la gente non ha un buon raccolto causa le piogge troppo scarse o troppo forti. Progetto e si parte con la costruzione di serre per aumentare la produttività della comunità. Gli operatori costruiscono, illustrano, insegnano e poi se ne vanno. Nel giro di tre mesi le serre sono abbandonate, altri tre mesi e se ne vedono solo gli scheletri. L’Ong torna per una valutazione, il commento che ne nasce è che “questi sono proprio lazzaroni e incapaci; e noi con tutto quello che abbiamo speso, ma che si arrangino!!”…
…Pronto??? Ma chi la voleva la serra?

l'incontro interculturale

Il vivere quotidiano immerso in una cultura diversa dalla mia è stata la prima prova da affrontare. Quando parti e ti fai chilometri cambiando non solo nazione ma anche continente, non trovi più quegli appoggi esterni che casa tua ti garantiva costantemente.
Ti trovi quindi di fronte a due possibilità: cercare di ritrovare quegli stessi punti di appoggio o costruirne di nuovi. Questo diverso modo di affrontare l’incontro interculturale è descritto a mio avviso molto chiaramente dall’antropologa Marinella Scalvi (in “Arte di ascoltare e mondi possibili – come si esce dalle cornici di cui siamo parte”), la quale traccia una chiara distinzione tra i due atteggiamenti. Non mi pare il caso di riprendere ora e in dettaglio ogni aspetto da lei descritto in merito, ma mi piacerebbe tracciare a grandi linee il suo pensiero, per poi confrontare le sue conclusioni teoriche con le mie esperienze.

Quello che la Scalvi ci spiega è che il nostro processo conoscitivo comporta la strutturazione di un campo per definire le possibilità logiche entro cui ci possiamo muovere. Questo processo, vissuto consciamente o inconsciamente, definisce le gestalt: matrici percettivo-valutative in cui, diciamo, ci sentiamo tranquilli. In altre parole, quando osserviamo dei fenomeni li confrontiamo tra loro ipotizzando delle relazioni logiche per ricavarne spiegazioni poi già valide per interpretare i fenomeni che osserveremo successivamente. Questo processo gestaltico ci offre, a livello emozionale, una certa sicurezza all’interno dei nostro cammino: osserviamo una certa situazione e abbiamo già un quadro generale in cui metterla per capirla. Inseriti nella propria cultura, queste spiegazioni sono le stesse quasi per tutti: le mie gestalt coincidono più o meno con quelle del mio vicino nel senso che diamo la stessa spiegazione alla stessa cosa. Quando però si è inseriti in un ambiente complesso, in cui cioè gli stessi fenomeni assumono significati diversi, le cose cambiano.
Come muoverci in questa sorta di incomprensione? Possiamo decidere di rimanere dentro le nostre cornici per super-proteggerci. Oppure possiamo fermarci un attimo, uscire da noi e librarci da una spanna da terra chiedendoci: “perché trovo strano il loro atteggiamento?”, “perché io farei diversamente?”. In tal modo ci poniamo al confine delle nostre cornici e ci domandiamo se esse valgano ancora. E’ naturale avvertire una sorta di resistenza, di insensatezza, in certi casi anche di senso del ridicolo e perfino di ansia.
“Certamente quando ci immergiamo nella vita quotidiana di una cultura diversa dalla nostra la sensibilità per “le stesse cose” con significati differenti deve essere sempre all’erta, è lo strumento principale per la comprensione reciproca, per costruire dei ponti.”
[ Marinella Scalvi, “Arte di ascoltare e mondi possibili – come si esce dalle cornici di cui siamo parte”]
Durante la celebrazione della Santa Messa, ogni volta succede la stessa cosa. Siamo seduti otto in un banco per otto, logico no? Arriva poi il nono e con uno sguardo fa capire che si vuole sedere anche lui nello stesso banco, così gli altri fanno per stringersi un po’ e farlo accomodare. Ora siamo un po’ stretti e scomodi, ma niente in confronto a quando arrivano il decimo e l’undicesimo. Le prime volte trovavo la cosa veramente maleducata, quando poi vedevo che negli altri banchi c’erano posti liberi, allora provavo anche irritazione e perfino rabbia nei loro confronti. “Ma sei imbecille? Ci sono posti vuoti dietro di noi e tu vieni a sederti qui che è già pieno? E voi che gli fate spazio senza dire nulla...”. Ho visto poi che qui la gente ha una concezione dello spazio diversa dalla mia, per me un posto a sedere è, come dire, “60 centimetri, quanto basta per non toccarmi con il vicino”, per loro è “mah, quanto basta per starci”. Io vedo un divano per tre persone, loro lo vedono per sei o sette persone.
Anche sui mezzi pubblici vale lo stesso. Ci sono quattordici posti a sedere, almeno così è scritto nel libretto di circolazione e nella mia testa, ma quante volte si è in quattordici e non si parte perché “non è ancora pieno”, quante volte si è già in una ventina di persone più bagagli e sacchi e galline, e l’autista si ferma per far salire altri passeggeri.
Di fronte ad una visione della realtà diversa dalla propria, non è certo automatico accettarla. Accettare che non vuol dire assumerla in sostituzione della propria o giustificarla o approvarla, ma significa DARLE LO STESSO VALORE: PONGO LA TUA VISIONE ALLO STESSO LIVELLO DELLA MIA. Il senso di insensatezza e addirittura la rabbia e l’ansia che quasi naturalmente si provano di fronte ad un comportamento che non riusciamo a spiegarci, ci possono condurre a due reazioni opposte: cercare di difendere la nostra gestalt fino a diventare anche aggressivi per poterla riaffermare, puntando i piedi e chiedendoci di chi è la colpa; oppure vivere questa ansia come segnale che siamo al confine della nostra cornice percettivo-valutativa e che abbiamo quindi la possibilità di vivere un cambiamento della stessa. La Scalvi stessa definisce questo atteggiamento “LIBRARSI A UNA SPANNA DA TERRA” per osservarci.
Sono d’accordo con lei nel credere che se non riusciamo a vedere le nostre cornici, non riusciamo nemmeno a comprendere i nostri limiti e il dialogo interculturale si brucerebbe in uno scontro tra due diversi modi di vedere, tra due punti di vista che non riescono ad incontrarsi: ognuno pretende di aver ragione e alla fine si fa “cosa dice il capo” non perché ha ragione, ma perché è lui che comanda.
Se invece provassimo a riconoscere le nostre emozioni, potremmo avvertire quando uno “scontro” è nell’aria ed essere pronti per affrontarlo mettendo sul tavolo non solo le nostre presupposte ragioni, ma anche le nostre matrici percettivo-valutative. Perché “
è solo agli occhi di un’altra cultura che la nostra propria cultura si rivela più completamente e più profondamente (ma mai esaustivamente, perché ci saranno sempre altre culture che sapranno vedere e comprendere ancora meglio)
” [Michael Bachtin]
Il discorso è molto complesso e mette in relazione l’ascolto attivo, l’autoconsapevolezza emozionale e la gestione creativa dei conflitti. Tre elementi fondamentali che dovrebbero caratterizzare l’incontro interculturale. Ma quello che voglio sottolineare è che vivere in una cultura diversa porta quotidianamente ad incontrare matrici differenti e a vivere sempre sul confine della propria. E allora L’UNICO ATTEGGIAMENTO COSTRUTTIVO È ESSERE UMILI, SENTIRSI UOMINI COME GLI ALTRI, PER INCONTRARSI. Se partiamo da valori di base quali il riconoscimento, il rispetto dell’altro e la ricerca per costruire un mondo migliore, allora non possiamo che sforzarci di “librarci ad una spanna da terra” per vedere noi e l’altro insieme, ognuno con le proprie cornici che si incontrano e si sovrappongono. I tre anni mi hanno dato questa ricchezza: LA NECESSITÀ QUOTIDIANA DI METTERE IN GIOCO LE MIE CONVINZIONI E LA MIA CULTURA PER POTER COSTRUIRE PONTI.

librarsi ad una spanna da terra

Molti di noi si saranno chiesti almeno una volta “Dove stiamo andando?”, “Cosa abbiamo dentro che ci spinge?”, “Cosa mi cucino per cena?”. Interrogativi che prima o poi fanno sentire il bisogno di una risposta per poter andare avanti, e anche per non andare a dormire affamati.
Per me sono domande sempre molto forti, forse perché non ho ancora capito nulla della vita, forse perché sono stanco di far cena con una tazza di latte. Sono interrogativi che, alla fine, mi hanno portato ad una solo questione: se desidero capire il perché del mio agire, se voglio affrontare responsabilmente una decisione, devo aver chiaro chi e che cosa pongo al centro delle mie giornate.
Se si fa un viaggio “responsabile” in un paese del Sud del mondo, è difficile non incappare in progetti di aiuto e di cooperazione falliti, la maggior parte non riusciti proprio perché non costruiti sui bisogni della comunità o, meglio, perchè creati su bisogni che la comunità sentiva come non prioritari o non propri. Lo SVI ha ben chiaro questa problematica e ne riconosce i rischi. Un qualsiasi tipo di intervento esterno comporta un cambiamento dell’ambiente e della cultura della popolazione che si incontra. Perché sia un cambiamento duraturo e fruttuoso, il beneficiario va messo al centro di questo cambiamento fin dall’inizio. In caso contrario, i vantaggi apportati finiranno insieme al progetto: partiti gli operatori umanitari, si ritornerà alle condizioni di vita precedenti al progetto.
Proprio pochi giorni fa stavo parlando con mio zio, fidei donum in Costa d’Avorio dal 1985. Sentendomi dire che in Kenia le attività procedono ma si correva sempre senza mai riuscire a finire quanto programmato, mi ha detto con tutta la sua calma e pazienza: “GUARDA CHE L’AFRICA NON LA CAMBIEREMO CERTO NOI”. Questa frase gira e rigira nella mia testa… se il popolo africano, e come esso qualsiasi popolo oppresso, vivrà un cambiamento reale e forte verso una condizione migliore, sarà perché lo ha voluto e lo ha scelto lui. Noi possiamo solamente accompagnarlo ed educarlo. Educarlo che non vuol dire farlo depositario delle nostre conoscenze, ma EDUCARLO CON IL FINE DI SVILUPPARE NEL POPOLO UNA PROPRIA CONOSCENZA CRITICA, DI FAR EMERGERE LE COSCIENZE PERCHÉ DIVENTINO PROTAGONISTE NELLA REALTÀ, DI FAR ACQUISIRE LA CAPACITÀ DI PENSARE E DI AGIRE.
A questo scopo noi operatori, NOI VOLONTARI CHE VIVIAMO SU QUESTA LINEA DI CONFINE, DOBBIAMO AVERE IL CORAGGIO DI METTERCI DA PARTE, DI AVERE FIDUCIA E DI CREDERE NELL’UOMO E NELLE SUE CAPACITÀ. Noi i primi a provare amore per l’uomo (e qui spero che la mia morosa non fraintenda)
Così l’incontro diventa processo educativo e richiede il cambiamento di entrambe le parti in gioco. Amo fortemente questo atteggiamento, e voglio affermare che la relazione di aiuto diventa tale, piena e vera se ha come punti di inizio l’oppresso e il volontario: il primo nel riconoscere i propri bisogni per soddisfarli e potersi liberare, il secondo nell’assumere un atteggiamento radicale, un atto di amore in pienezza per camminare con e per il primo.

Ad Gentes

In tutti questi discorsi, in questo mio credere in un atteggiamento di umiltà nei confronti dell’altro per poter camminare insieme verso un mondo migliore (e possibile!), nell’impegnarmi in un rapporto di educazione reciproca e ostinatamente animare l’altro perché possa trovare la sua strada, sono partito dalla Parola e dal non nascondere il battito che essa faceva nascere in me.
Per questo avevo dato per scontato il poter trovare missionari religiosi come principali punti di appoggio morale. Certo li ho trovati, ma spiazzante e demoralizzante è stato sentirmi, con alcuni di essi, dalla parte opposta: sentirmi rimproverare per il mio modo di relazionarmi mi ha fatto davvero male, perché è andato a toccare non solo il mio operato, ma anche la mia fede.
Ho voluto allora rimettermi in discussione, cercando di vedere dove avevo commesso gli sbagli che mi venivano rimproverati. Prima di partire, proprio i missionari mi avevano aiutato a comprendere e a scoprire dentro di me lo spirito “ad Gentes”. Sono tornato su quelle pagine…

Tutti i cristiani sono tenuti a manifestare con l’esempio della loro vita e con la testimonianza della loro parola l’uomo nuovo. […] Ma perché essi possano dare utilmente questa testimonianza, debbono stringere rapporti di stima e di amore con questi uomini e dimostrarsi membra vive di quel gruppo umano […] improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, dimostrando tutte le ricchezze che Dio ha dato ai popoli.” [Ad Gentes, 11]

Essa [la Chiesa] non rivendica a se stessa altra sfera di competenza, se non quella di servire amorevolmente e fedelmente, con l’aiuto di Dio, gli uomini. I discepoli di Cristo, mantenendosi in stretto contatto con gli uomini nella vita e nell’attività, si ripromettono così di offrir loro un’autentica testimonianza cristiana e di lavorare alla loro salvezza. […] Essi infatti non cercano il progresso e la prosperità puramente materiale degli uomini, ma intendono promuovere la loro dignità e la loro fraterna unione” [Ad Gentes, 12]

Ma allora cosa c’è che non va? Educare… stare con… animare… non mi sembrano poi tanto lontani da queste parole.
GIM e SVI e questi tre anni mi hanno insegnato a credere nell’altro se si vuole camminare insieme, a sentire l’umiltà come valore di vita, ad accettare di vivere al confine. Da questo la scelta di educare, di stare con, di animare. Di camminare insieme, sullo stesso piano. Credendoci, come uomo e come cristiano, ci ho provato e ci ho faticato. E la gioia di raccogliere i frutti è stata meravilgiosa…poi però lo scontro con chi si impone con arroganza “Devi capire il principio che se non gli stai con il fiato sul collo, loro non fanno niente” ... Principio?! Stare con il fiato sul collo?! Sembra proprio che qualcuno preferisca essere ascoltato perchè temuto e non perchè stimato.
Ho riflettuto e ho iniziato a pensare non dove avevo sbagliato, ma “se” avevo commesso qualche sbaglio.