Grazie...

... a quelli che partono con la voglia di stare, a quelli che vivono il Vangelo prima di predicarlo,
a quelli che non smetteranno mai di sognare, a quelli che l'Amore è solo con la maiuscola,
a quelli che si accettano come sono, a quelli che piangono ad ogni partenza,
a quelli che Africa e Gioia si confondono ogni giorno, a quelli che vivono di emozioni,
a quelli che non smettono di camminare, a quelli che non si abbandonano mai,
a quelli che pregano, a quelli che sul piedistallo non ci vogliono stare, a quelli che Dio non è morto,
a quelli che si vive anche senza moda, a quelli che pensano con il cuore,
a quelli che non scelgono per comodità, a quelli che soffrono e poi ti guardano negli occhi più ricchi di prima,
...e anche a quelli che "Gianpi ci hai rotto con questi ringraziamenti"
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che concezione abbiamo dell'uomo?

La missione che vorrei vivere, quindi, è un cammino educativo mano nella mano. Ma …con chi? Chi è questo “altro”?

L’ idea che ci si fa dell’educazione e dell’educatore dipende ovviamente dalla concezione che si ha dell’uomo e del suo destino
” [Essai de philosphie religieuse Lethielleux, Paris, 1903, p. 233).]

Innanzitutto nel momento in cui parliamo di educazione, dobbiamo riferirci all’educando nella sua integrità. In più, come cristiani, abbiamo “l’aggravante” di non poter considerare l’uomo se non come noi stessi: amarlo nella stessa misura con cui amiamo noi stessi, volerci relazionare con lui nella stessa misura con cui desideriamo fare con noi stessi, scavare nella sua profondità come vorremmo scavare nella nostra. Molti pedagogisti affermano che il rapporto educativo si fonda su una relazione interpersonale in cui sono implicate non solo le conoscenze, ma soprattutto le dinamiche delle personalità di coloro che vi partecipano. Personalità che non possono mettersi in gioco se non nella loro complessità e integrità.
Quindi non ci è concesso, come laici o come atei, di vivere la missione come un superficiale “andiamo ad aiutare i poveri”, “apriamo un altro progetto per avere più beneficiari” perché cadremmo ancora una volta nel vedere l’altro solo come povero da aiutare e non saremmo in grado di costruire una relazione autentica. L’altro non è solo “il povero” o solo “il beneficiario”, l’altro è uomo, l’altro è donna, figlio o padre della sua famiglia, membro attivo o meno della sua comunità, credente di questa chiesa piuttosto che dell’altra, con tutto il suo bagaglio di conoscenze e con una fragilità di emozioni come la nostra.
L’altro è persona e, come tale, ricca di capacità e di impegno per migliorarsi. A noi la possibilità di camminare con lui. E lo SVI in questo è stato ricco di insegnamenti: pur senza parlare apertamente di educare, ha disegnato la figura del volontario come un animatore di gruppo. Che non vuol dire fare canti e balli per occupare il tempo e sentirci allegri, ma che significa far nascere e crescere un gruppo come “contesto psico-sociale assai ricco di stimoli e di possibilità in ordine alla crescita, alla maturazione e all’apprendimento” [Manuale per animatori di gruppo” K. Vopel]

l'incontro interculturale

Il vivere quotidiano immerso in una cultura diversa dalla mia è stata la prima prova da affrontare. Quando parti e ti fai chilometri cambiando non solo nazione ma anche continente, non trovi più quegli appoggi esterni che casa tua ti garantiva costantemente.
Ti trovi quindi di fronte a due possibilità: cercare di ritrovare quegli stessi punti di appoggio o costruirne di nuovi. Questo diverso modo di affrontare l’incontro interculturale è descritto a mio avviso molto chiaramente dall’antropologa Marinella Scalvi (in “Arte di ascoltare e mondi possibili – come si esce dalle cornici di cui siamo parte”), la quale traccia una chiara distinzione tra i due atteggiamenti. Non mi pare il caso di riprendere ora e in dettaglio ogni aspetto da lei descritto in merito, ma mi piacerebbe tracciare a grandi linee il suo pensiero, per poi confrontare le sue conclusioni teoriche con le mie esperienze.

Quello che la Scalvi ci spiega è che il nostro processo conoscitivo comporta la strutturazione di un campo per definire le possibilità logiche entro cui ci possiamo muovere. Questo processo, vissuto consciamente o inconsciamente, definisce le gestalt: matrici percettivo-valutative in cui, diciamo, ci sentiamo tranquilli. In altre parole, quando osserviamo dei fenomeni li confrontiamo tra loro ipotizzando delle relazioni logiche per ricavarne spiegazioni poi già valide per interpretare i fenomeni che osserveremo successivamente. Questo processo gestaltico ci offre, a livello emozionale, una certa sicurezza all’interno dei nostro cammino: osserviamo una certa situazione e abbiamo già un quadro generale in cui metterla per capirla. Inseriti nella propria cultura, queste spiegazioni sono le stesse quasi per tutti: le mie gestalt coincidono più o meno con quelle del mio vicino nel senso che diamo la stessa spiegazione alla stessa cosa. Quando però si è inseriti in un ambiente complesso, in cui cioè gli stessi fenomeni assumono significati diversi, le cose cambiano.
Come muoverci in questa sorta di incomprensione? Possiamo decidere di rimanere dentro le nostre cornici per super-proteggerci. Oppure possiamo fermarci un attimo, uscire da noi e librarci da una spanna da terra chiedendoci: “perché trovo strano il loro atteggiamento?”, “perché io farei diversamente?”. In tal modo ci poniamo al confine delle nostre cornici e ci domandiamo se esse valgano ancora. E’ naturale avvertire una sorta di resistenza, di insensatezza, in certi casi anche di senso del ridicolo e perfino di ansia.
“Certamente quando ci immergiamo nella vita quotidiana di una cultura diversa dalla nostra la sensibilità per “le stesse cose” con significati differenti deve essere sempre all’erta, è lo strumento principale per la comprensione reciproca, per costruire dei ponti.”
[ Marinella Scalvi, “Arte di ascoltare e mondi possibili – come si esce dalle cornici di cui siamo parte”]
Durante la celebrazione della Santa Messa, ogni volta succede la stessa cosa. Siamo seduti otto in un banco per otto, logico no? Arriva poi il nono e con uno sguardo fa capire che si vuole sedere anche lui nello stesso banco, così gli altri fanno per stringersi un po’ e farlo accomodare. Ora siamo un po’ stretti e scomodi, ma niente in confronto a quando arrivano il decimo e l’undicesimo. Le prime volte trovavo la cosa veramente maleducata, quando poi vedevo che negli altri banchi c’erano posti liberi, allora provavo anche irritazione e perfino rabbia nei loro confronti. “Ma sei imbecille? Ci sono posti vuoti dietro di noi e tu vieni a sederti qui che è già pieno? E voi che gli fate spazio senza dire nulla...”. Ho visto poi che qui la gente ha una concezione dello spazio diversa dalla mia, per me un posto a sedere è, come dire, “60 centimetri, quanto basta per non toccarmi con il vicino”, per loro è “mah, quanto basta per starci”. Io vedo un divano per tre persone, loro lo vedono per sei o sette persone.
Anche sui mezzi pubblici vale lo stesso. Ci sono quattordici posti a sedere, almeno così è scritto nel libretto di circolazione e nella mia testa, ma quante volte si è in quattordici e non si parte perché “non è ancora pieno”, quante volte si è già in una ventina di persone più bagagli e sacchi e galline, e l’autista si ferma per far salire altri passeggeri.
Di fronte ad una visione della realtà diversa dalla propria, non è certo automatico accettarla. Accettare che non vuol dire assumerla in sostituzione della propria o giustificarla o approvarla, ma significa DARLE LO STESSO VALORE: PONGO LA TUA VISIONE ALLO STESSO LIVELLO DELLA MIA. Il senso di insensatezza e addirittura la rabbia e l’ansia che quasi naturalmente si provano di fronte ad un comportamento che non riusciamo a spiegarci, ci possono condurre a due reazioni opposte: cercare di difendere la nostra gestalt fino a diventare anche aggressivi per poterla riaffermare, puntando i piedi e chiedendoci di chi è la colpa; oppure vivere questa ansia come segnale che siamo al confine della nostra cornice percettivo-valutativa e che abbiamo quindi la possibilità di vivere un cambiamento della stessa. La Scalvi stessa definisce questo atteggiamento “LIBRARSI A UNA SPANNA DA TERRA” per osservarci.
Sono d’accordo con lei nel credere che se non riusciamo a vedere le nostre cornici, non riusciamo nemmeno a comprendere i nostri limiti e il dialogo interculturale si brucerebbe in uno scontro tra due diversi modi di vedere, tra due punti di vista che non riescono ad incontrarsi: ognuno pretende di aver ragione e alla fine si fa “cosa dice il capo” non perché ha ragione, ma perché è lui che comanda.
Se invece provassimo a riconoscere le nostre emozioni, potremmo avvertire quando uno “scontro” è nell’aria ed essere pronti per affrontarlo mettendo sul tavolo non solo le nostre presupposte ragioni, ma anche le nostre matrici percettivo-valutative. Perché “
è solo agli occhi di un’altra cultura che la nostra propria cultura si rivela più completamente e più profondamente (ma mai esaustivamente, perché ci saranno sempre altre culture che sapranno vedere e comprendere ancora meglio)
” [Michael Bachtin]
Il discorso è molto complesso e mette in relazione l’ascolto attivo, l’autoconsapevolezza emozionale e la gestione creativa dei conflitti. Tre elementi fondamentali che dovrebbero caratterizzare l’incontro interculturale. Ma quello che voglio sottolineare è che vivere in una cultura diversa porta quotidianamente ad incontrare matrici differenti e a vivere sempre sul confine della propria. E allora L’UNICO ATTEGGIAMENTO COSTRUTTIVO È ESSERE UMILI, SENTIRSI UOMINI COME GLI ALTRI, PER INCONTRARSI. Se partiamo da valori di base quali il riconoscimento, il rispetto dell’altro e la ricerca per costruire un mondo migliore, allora non possiamo che sforzarci di “librarci ad una spanna da terra” per vedere noi e l’altro insieme, ognuno con le proprie cornici che si incontrano e si sovrappongono. I tre anni mi hanno dato questa ricchezza: LA NECESSITÀ QUOTIDIANA DI METTERE IN GIOCO LE MIE CONVINZIONI E LA MIA CULTURA PER POTER COSTRUIRE PONTI.