Grazie...

... a quelli che partono con la voglia di stare, a quelli che vivono il Vangelo prima di predicarlo,
a quelli che non smetteranno mai di sognare, a quelli che l'Amore è solo con la maiuscola,
a quelli che si accettano come sono, a quelli che piangono ad ogni partenza,
a quelli che Africa e Gioia si confondono ogni giorno, a quelli che vivono di emozioni,
a quelli che non smettono di camminare, a quelli che non si abbandonano mai,
a quelli che pregano, a quelli che sul piedistallo non ci vogliono stare, a quelli che Dio non è morto,
a quelli che si vive anche senza moda, a quelli che pensano con il cuore,
a quelli che non scelgono per comodità, a quelli che soffrono e poi ti guardano negli occhi più ricchi di prima,
...e anche a quelli che "Gianpi ci hai rotto con questi ringraziamenti"

soggiorno al Chachacha

Rientrato a Lusaka, ho ancora due giornate prima del volo di rientro per l’Italia. Pernotto al Chachacha: è una buona sistemazione, davvero economica (un terzo rispetto al Chingola Motel, e qui ci sono acqua corrente in bagno e serrature alle porte!!). Appena entri dal cancello di ingresso, ti trovi davanti un grazioso compound con tanto di piscinetta e piano bar all’aperto. Poi un piccolo edificio che fa da reception, cucina e con una stanza doppia. Nel giardino retrostante è poi diviso in piazzole per le tende, due bungalof come dormitori, un area adibita a lavanderia, un edificio con un paio di stanze da quattro, bagni e docce. È una sorta di campeggio nel centro di Lusaka e, visto il colore della pelle dei clienti, sembra un piccolo mondo bianco nel centro di Lusaka.
Altro punto a favore per il Chachacha è dato dalla cucina. Il fritto non è annegato nell’olio, il kechup non viene allungato con l’acqua e quando ordini un pasto, te lo portano all’ora accordata.

Viaggio a Mutanda

Due giorni, in un totate esatto di 20 ore, sono abbastanza perchè il mio povero sedere inizi ad odiarmi per averlo lasciato appoggiato, schiacciato, piatto o di lato (destro o sinistro, dopo l’ennesima volta che cambi posizione, poco importa) sul sedile di un bus. Non mi è stato ad ascoltare nemmeno quando, con tutta pazienza, gli ho spiegato che non c’erano alternative per spostarsi da Chikuni a Mutanda. Dal sud al nord dello Zambia; si è girato dall’altra parte e, offeso, mi ha risposto con un sospiro... non ho avuto altra scelta che aprire il finestrino per cambiare aria.
Viaggio lungo certo, ma alla fine è andato tutto bene, no?

UNO) Il bus che doveva arrivare a Sowezi si è fermato a Chingola. Ed ovviamente ti informano del cambiamento di programma solamente quando alle 22.30 il bus fa sosta a Kitwe e il conduttore chiede “Chi deve andare a Sowezi?”. Io alzo la mano, e facilmente mi rendo conto che tra i passeggeri sono l’unico diretto a Sowezi. La cosa non è certo confortante: l’autista, il conduttore ed io per le tre ore di viaggio notturno da Chingola a Sowezi. Fortunatamente il conduttore risolve il problema decidendo seduta stante che il bus arriverà solo a Chingola, città che avremmo raggiunto in un paio d’ore. Mi restituisce la differenza del biglietto ed inizia ad armeggiare con la radio.

DUE) Un consiglio, se vi fermate a dormire a Chingola, evitate di pernottare al “Chingola Motel”. Sono certo che non farete fatica a trovare qualcosa di migliore e ne sarete soddisfatti. Non è che dovete andare all’Hilton o al super hotel dieci stelle da 200 dollari a notte, ma scegliete almeno un posto dove se alla reception vi dicono “bagno in camera” intendono con acqua corrente. E se alla reception vi danno le chiavi della camera, vi aspettate che la serratura ci sia e funzioni...

TRE) Il secondo giorno, a Chingola, le classiche tre ore di attesa prima di lasciare la città con il mini bus. Perchè ovviamente prima di partire bisogna aspettare che il bus si riempia. Per la qual cosa può essere necessaria una mezz’ora o una mezza giornata. E quando sei il primo, l’attesa è snervante. Cammini lungo la stazione finquando non ti stanchi di essere continuamente fermato dai venditori ambulanti o da gruppi di ragazzi che non hanno meglio da fare che oziare alla stazione e rompere ------- ai passanti. Pare che i bianchi siano i preferiti. Quindi ti siedi, ma ovviamente il tempo inizia a trascorrere ancora più lentamente. Provi a cercare qualcosa da bere ma trovi solo CocaCola e birra. Guardi l’ora, guardi il bus ancora mezzo vuoto e ti chiedi se riuscirai a partire... e già lo spettro di un’altra notte a Chingola inizia ad apparire ai tuoi occhi.

Viaggio “particolare” insomma, ma ne è valsa la pena: il soggiorno a Mutanda è stato di quelli piacevoli, come lo è ogni momento condiviso con gli amici. Se poi aggiungiamo il fatto che erano settimane che non mi alzavo più tardi delle sei, il potermi svegliare alle otto della mattina ha dato la sua positiva tonalità alle giornate. Il verde paesaggio intorno a Mutanda è davvero incantevole, come solamente chilometri e chilometri di verde bush che copre le colline può essere. Sono stati pochi giorni, ma davvero piacevoli. Grazie Irene, grazie Albino, nel credere ogni giorno in quello che fate, anche quando costa fatica. Siete davvero grandi.

Ironic

Karamoja, tardo pomeriggio di una domenica piatta e calma sotto un sole che non risparmia nessuno. Qualcuno chiama dal cancello, è il chairman della sottocontea che cercando di riprendere fiato, ci spiega che all’ambulatorio è appena arrivato un ragazzo per una ferita grave ed è necessario portarlo all’ospedale. Saliamo immediatamente sulla jeep e andiamo all’ambulatorio. Una piccola folla ci aspetta nel piazzale e si avverte un pò di tensione.
Il ragazzo ha una ferita da taglio sopra l’addome, un’accoltellata mi dicono. Il dottore, a parte pulire e tamponare la ferita non può fare altro. È necessario portarlo all’ospedale, ad una quarantina di chilometri di pista battuta alla meglio. L’orario non è dei migliori, al crepuscolo sale il rischio di imboscate. L’altra volontaria (che detto tra noi, per anzianità dovrebbe essere la mia responsabile) non mi dice nè di aspettare nè di andare, ma semplicemente “io non lo porto, vedi tu cosa fare”. Il chairman, il dottore, il ferito e le altre persone aspettano.
Chiamo da parte il chairman e discuto con lui sulla sicurezza del viaggio, lui mi rassicura dicendomi che ultimamente non ci sono stati episodi di rapina. Lo stesso mi dice uno dei nostri collaboratori che, da semplice curioso, osservava le dinamiche di quella domenica.

Accetto di portare il ragazzo all’ospedale, a patto che qualcuno vada a chiamare il poliziotto che c’è di turno alla stazione e lo convinca a partire con noi. Dopo una decina di minuti il ragazzo ferito, un nostro collaboratore, il poliziotto ed io partiamo per l’ospedale. All’interno della jeep si sente subito un forte odore di alcool provenire dal poliziotto... è chiaro che abbiamo interrotto il festeggiamento di qualcosa, mentre è dubbio che in quello stato possa usare il fucile che si porta a tracolla.
Così dopo i primi chilometri di scossoni per le buche che non sono riuscito ad evitare, all’interno dell’abitacolo si accende subito una duplice competizione. La prima tra l’odore di disinfettante che impregna le garze e l’odore di alcool provenire dal poliziotto. L’imparità è subito evidente e scommetto sul poliziotto vincente 3 a 1. La seconda gara è invece più avvincente. Da una parte i lamenti del ferito: una litania continua rotta da acute urla ogni qualvolta centro involontariamente una buca. Dall’altra la voce del poliziotto, il quale, preso dai vapori dell’alcool, ci vuole a tutti i costi raccontare la sua domenica e non sembra rinunciare a questo suo nuovo scopo di vita. Così parla e parla alzando sempre più il tono di voce in modo da coprire il forte rumore del vecchio motore della jeep, la radio e le urla del ferito.
In tutto questo il nostro collaboratore se ne esce ogni tanto con una domanda, facendo l’offeso se gli chiedo per due o tre volte di ripetere perchè non sono riuscito a capire cosa ha detto.

Non ci resta che piangere... o non ci resta che sorridere. A cosa serve arrabbiarsi per questa Africa che non arriva a rispondere ai bisogni primari della maggiorparte della sua gente, un ospedale a un’ora di distanza con il rischio di imboscate, un polizziotto ubriaco come scorta, una buca ogni metro e una vecchia Toyota che fa fatica a salire di giri.

Perchè non provare a sorridere con ironia a ciò che, facendoci arrabbiare, ci rovina le giornate. A quello che non possiamo cambiare anche se lo volessimo, anche a ciò che ci ha fatto soffrire. Va bene provare dolore, ma poi è necessario anche trasformarlo e superarlo nell’ironia. Le incomprensioni. Le cattive parole. Le frasi dure. La fine di qualcosa che ci rendeva felici. Ogni evento ha un lato ironico, e credo che per viverlo nella sua pienezza sia utile anche riderci sopra con un pò di ironia e di intelligenza (per l'ironia ci posso provare, ma per l'intelligenza non ho molte carte da giocare)

Quella sera riuscimmo ad arrivare all’ospedale e a ricoverare il ragazzo. Il dottore ci chiese preoccupato se volevamo lasciare in reparto anche il poliziotto in modo che smaltisse la sbronza. Gli risposi che fintanto che teneva la sicura al fucile e non vomitava sui sedili, il poliziotto poteva rientrare con noi.

serata strana

Stasera non avevo proprio voglia di mettermi al computer e di scrivere: è tardi, sento i miei occhi troppo stanchi per guardarsi intorno, il corpo pare attratto solamente dal letto e dalla linea morbida e perfettamente piana del materasso, mentre la mente chiede riposo dopo questa settimana che è sembrata durare il doppio delle altre.
Il fatto è che mi ero anche sdraiato a letto con il desiderio magari di leggere un pò prima di spegnere luce e ritirarmi dal mondo sotto la mia zanzariera. Il problema è che il conquilino DJ è nella camera accanto in compagnia della sua dolce metà (di turno) ed entrambi non sembrano preoccupati di fare eccessivo rumore... anzi, non sembrano preoccupati proprio per nulla.
Abbandonato quindi libro e materasso, mi sono messo alla scrivania, computer on e subito auricolari e musica, volume quanto basta per distrarmi e coprire il vivo dialogo monosillabico che i due si stanno scambiando.
Scegliamo Elisa stasera.
“You call me your friend so you give me a name, I fell much stronger now than I ever found… you call me your friend when you show me the way to lose my fears so I can take a chance…”
La giornata non è andata poi tanto male: sveglia alle cinque, corsa, poi doccia e colazione. Alle sette si esce, camminata per passare in parrocchia per i saluti, un veloce scambio di parole ed un caffè, poi in aula per una bella e piena mattinata. Oggi, come ogni venerdì, test di verifica (per me un modo per avere un feedback oggettivo, per gli alunni uno stimolo non richiesto per concentrarsi e impegnarsi)
“…you call me your friend you decide I can stay to learn your thought, to love you anyway, to see your world… reveal your beauty… know what you need…”
Pomeriggio, caldo come al solito. Bucato, pulizie di casa, barbiere. Poi altra camminata verso Canissius High School per la Messa. Alle sei ultima lezione, per poi chiudere alle otto-otto e mezza aule e cancello. Passaggio in parrocchia per consegna chiavi, saluti serali.
“…when you finally open the door… you find out you are not alone and that you are someone to love…”
E poi, finalmente, il momento della giornata che preferisco: la camminata solitaria e silenziosa che mi porta a casa. Mi accompagnano solo i pensieri della giornata che si sta concludendo e i sogni delle giornate che verranno...
“...and you never have to stop dreaming. You never have to stop dreaming...”

Poter ritagliami questo momento è davvero speciale per me, e il farlo anche quando non ne sento la voglia (perchè comunque, finite le lezioni serali, a casa ci devo tornare) è un bel regalo. E mi sorprende come riesca a darmi calma e pa...bussano alla porta della stanza, è il conquilino DJ che mi chiede se ho voglia di una birra. Gli rispondo gentilmente di no, non sono un fan della birra. Puoi guardo l’orologio: neanche dieci minuti... lo sapevo che alla fine durano poco!

a ciascuno la sua parte

Domenica pomeriggio, Aljazeera ha appena raccontato cosa sta succedendo quà e là per il mondo: folla sotto il sole in piazza San Pietro per la santificazione per la prima volta di un’australiana; l’apertura di una scuola per bambini non udenti in Guatemala, dove per questa diversità di abilità i bambini subiscono non solo incomprensione ma anche pregiudizi e abbandono dalla società; la raccolta differenziata in un paesino giapponese dove il riciclo è diventato un’abitudine e uno stile di vita, nonchè energia tramite le turbine del vicino inceneritore (poi dicono che i giapponesi sono avanti). Infine, come sempre, i risultati del campionato inglese, italiano e spagnolo.

Domenica mattina, se per un attimo non consideriamo il fatto che nella parrocchia di Chikuni la Santa Messa viene celebrata alle sette di mattina (cioè sveglia alle sei..no comment), quella di oggi è stata proprio una bella occasione per riflettere sul Vangelo e su se stessi, con l’omelia che sottolineava la Parola e punzecchiava la comunità. Mi ha ricordato le omelie del mio parroco. Parole semplici e chiare.
Quello del Vangelo di oggi è un messaggio fermo, che traduco e trascrivo liberamente con un pò di...come dire, con un pò di quel che ci vuole, e che dice più o meno così: potete pregare quanto volete, ma non è che Dio arriva proprio dappertutto. Detto così potrebbe suonare (“potrebbe” suonare) un’affermazione atea... in effetti il prete non ha usato proprio queste parole, anzi rileggendole ammetto che la traduzione è decisamente libera... comunque, mi spiego, possiamo pregare il Signore per questo o quello, recitare il rosario (mamma mia, chissà perchè si usa il verbo “recitare”, suona così vuoto), partecipare giornalmente all’eucarestia, ma anche noi dobbiamo fare la nostra parte! Impegno, senza restare inoperosi ad aspettare che Dio sistemi le cose per noi. Fatica, nel continuare a camminare nonostante il peso sulle nostre spalle aumenti, senza fermarci per la prima stanchezza. Sicurezza, nell’affrontare le difficoltà che ci mettono alla prova senza bloccarci alla prima porta che si chiude.

Certamente (e per fortuna) vale anche il viceversa (meno male!!): non possiamo arrivare dappertutto o risolvere ogni cosa come vorremmo, ma possiamo affidarci a Dio. Insomma, anche Lui ha le Sue responsabilità, e noi i nostri limiti. Preghiera, nel presentare a Dio le nostre debolezze e le nostre fragilità e nel chiederGli se “non si potrebbe portare questo giogo un pò per uno?”. Abbandono, nel chiederGli di aggiustare un pò la vita quando questa ci sembra scivoli via. Fede e Speranza (Spe Salvi!!), di fronte all’ennessima difficoltà che ci vorrebbe spingere a cambiare direzione e strada.
Perchè finchè va tutto bene, sono euforico, allegro e felice di essere cattolico. Ma quando non va proprio come voglio, insieme alle difficoltà iniziano anche i dubbi se questa sia la strada giusta... e nel cuore la sofferenza che non mi lascia dormire... e la debolezza nel vedermi di fronte fragilità e limiti che non pensavo fossero miei... mi domando il senso di quanto avevo provato a costruire e che ora sembra essersi sciolto... cerco intorno un appiglio per non essere trascinato a valle dalla corrente...

Però è proprio in questi momenti che riesco a conoscermi proprio per quello che sono (in tutta la mia perfezione  , ovviamente  ): è in questi momenti che riesco a misurare la forza, non quando ogni cosa va per il meglio. É in questi momenti che posso crescere, fin tanto che riesco a spingermi e a misurarmi coi miei limiti. È qui che mi viene chiesto di fare la mia parte,per agire e vedere fino a dove riesco ad arrivare da solo, sapendo che Lui è sempre accanto e pronto ad aiutarmi quando scivolo.

Allora ringrazio il Signore per avermi donato le difficoltà. Ma Lo ringrazio anche per non avermene donate tante o tutte insieme.
Un abbraccio.

Change point of view... and start to change thinking



Sometimes it’s just a matter of changing our point of view, and even our thinking changes. It grows pushing itself at the border of our small mind. Just try!! Try to see the same things as you have never seen them. Of course, as all the beautiful actions and emotions, it costs physical and mental exertion (and a bit of craziness). But it’s worth trying!! There are more possibilities than you can think. For example… climbing the radio tower transmitter…

vivi e libera le emozioni... fosse facile!!

Una puntualizzazione che mi sento in dovere di dare. Per chiarezza. Per completezza. Per maggiore comprensione. E perchè nessuno pensi che le cose vadano sempre bene.
In effetti nei miei ultimi posts mi sono ben guardato dallo scrivere le difficoltà di queste settimane, quella dell’adattarsi a un posto nuovo, quella di sentire ancora vive le emozioni che mi ero trascinato dall’Italia ma che non volevo colorassero il mio arrivo a Chikuni. Forse mi illudevo che venissero fermate alla dogana “Mi scusi, non può portarle con se, deve lasciarle in Italia”. Troppo semplice.
Ogni giorno vengono a bussare al cuore esigendo un pò d’aria. Volontariamente ne esco sconfitto e concedo loro di muoversi nei pensieri. Accade alla sera, quando negli ultimi passi della giornata, esco a rinfrescarmi e a rilassarmi.
All’inizio ero titubante: concedere loro ancora un pò di spazio nel cuore e nella mente mi appariva come farmi ancora del male gratuitamente. Quando si avverte un l’emozione venire a galla e offrirvi già le prime lacrime agli occhi... a che scopo continuare? Perchè concentrarsi ancora su questo sentimento se so già che mi farà stare male? Perchè concedersi alla sofferenza, quando posso scegliere di girarmi dall’altra parte e sorridere indossando una bella maschera? Ma giorno dopo giorno, allenandomi in e di questo concentrarmi, il momento ha acquistato la sua bellezza facendomi provare quanto sia liberatorio poter vivere ogni emozione per come si presenta al nostro animo (o se preferite alla nostra mente) anche nei giorni in cui questo significa soffrire. E forse saranno state la consapevolezza di quello che stavo vivendo, insieme alla volontà di non voler nascondere angoscie e dolori in pensieri chiusi ai bordi della mente, ad aiutarmi e a farmi sentire quasi come distaccato da me stesso.

Non vi dico quello che è venuto a galla, una confidenza che lascio per pochi... ma le prime volte mi sono sentito davvero di merda. Consapevolmente e volontariamente certo, ma comunque di merda.
Perchè l’amico Fromm non te lo dice poi così chiaramente, certo ti illumina scrivendoti che
Senza sforzarsi ed essere disponibili ad affrontare il dolore e l’angoscia, è impensabile di poter crescere
e che
Percepire la verità è un’esperianza liberatoria. Libera infatti energia e illumina la mente. Procedendo su questa strada, l’uomo acquista maggiore dipendenza e vitalità, è più vitale e concentrato su se stesso. Forse si renderà conto di quanto sia difficile, se non addirittura impossibile, cambiare la realtà, ma – perlomeno- egli riuscirà a vivere e a morire da essere umano e non da pecora. Quando, invece, l’ansia di evitare la sofferenza e l’aspirazione al massimo confort si sostituiscono ai valori più alti, alla verità sono preferibili le illusioni.

Belle parole... ma col cavolo che ti fa capire quanto sia doloroso e quanto al momento ti faccia stare male. Non ti spiega quanto la sofferenza riesca a riempirti il corpo: parte dal cuore, si spinge lungo le membra e ti rende pesante nei movimenti. Svogliato nei pensieri. Poi il pianto che sale, come acqua in cui ti senti immerso. Ti arriva dallo stomaco, sale al petto... ora al collo...ora alle labbra...e non riesci a farci nulla...muovi anche le braccia in movimenti vani quasi volessi tornare a galla spingendo di nuovo la testa fuori dall’acqua. Fuori dal dolore. Invano.
Ma sarebbe “errore” e “presunzione” pensare che “sia possibile una vita senza fatica e sofferenza”. Certamente costa fatica scegliere di viverle, ma è davvero liberatorio. Perchè ora, negli ultimi passi della giornata in cui mi concedo riflessioni, preghiera e sogni, lascio ogni emozione spontanea salire dal cuore alla mente per prendersi il suo momento di aria, respirare vera e per quella che è, gonfiarsi fino a riempirmi ...e poi staccarsi da me. Alcune, nel volare via, mi lasciano un sorriso. Altre una lacrima e il cuore che trema. Ma tutte, spontanee e libere, mi regalano la verità. Facendomi conoscere me stesso.

Queste sono state le mie riflessioni, le mie emozioni, i miei pensieri... o almeno quello che ho percepito di loro. Forse sono riuscito a vederle realmente per quelle che sono. O forse non so ancora distinguere la realtà, dal sogno... e dall’effetto allucinageno del Lariam.
Un abbraccio

effetto Lariam, o semplice stupidità??

Settimana abbastanza piena quella appena conclusa. Non certo per il lavoro, visto che i progressi registrati sono in linea con l’african time locale, ma forse anche per questo i giorni trascorsi sono stati occasione irrecuperabile..ops, aggettivazione superflua, scusate: ogni giorno è irrecuperabil! Una costante che per i più negativi significa “ho perso troppo tempo, perchè è sempre così tardi!”; mentre per i positivisti diventa “il sorriso, o la gentilezza, che posso regalare ora, in questo momento, sono solo per adesso; quindi sorrido!!” ...bene bene, mi sa che oggi sono più confuso e meno chiaro del solito... e non è per la stanchezza visto che ho combinato poco. Sarà un effetto collaterale del Lariam. Ci pensavo proprio in questi giorni, riflettevo che infondo fa comodo seguire la profilassi antimalarica: per ogni cosa hai la scusa già pronta.

“È tutto il giorno che aspetto il tuo sms!!” - “Scusa, mi sono dimenticato...sai, sono giorni che dimentico le cose, sarà effetto del Lariam... pesante com’è, ho anche dei dolori di stomaco...”

“Allora!! Quando ti decidi a girarmi l’articolo? Lo voglio trovare domani mattina nella mia casella!!” - “Scusa capo... è che da quando sono partito, non riesco a concentrarmi molto e impiego più tempo nel leggere o scrivere. Mah, sarà effetto Lariam...in molti hanno avuto problemi...”

“Ma ti sembra il modo di rispondermi?!” - “...ero stranamente nervoso. Non sono così di solito, sarà effetto Lariam”. E fino a qua può reggere.
“Non puoi negarlo! Ti ho visto con i miei occhi!! La stavi baciando!!!” - “... aspetta..ma non è come pensi... è che sarà questo Lariam che mi dà allucinazioni..confondo le persone..pensavo fossi tu.” Ecco, diciamo che la scusa della profilassi non funziona proprio con tutto. Ma ritengo che in merito a fantasia e a faccia tosta Dio sia stato molto più generoso con l’uomo che non con la donna.

Tornando a noi, la settimana è stata ricca e generosa di momenti per riflettere, pregare e sognare. Cose che quando faccio amo mischiare, sovrapporle fino a non comprendere se i miei pensieri sono una preghiera al Signore o un sogno tra i mille. Amo confonderle tra loro tanto da arrivare a dire “guarda Signore, tra tutto questo che ti ho appena detto, non ci ho capito molto..vedi tu di sistemare le cose, che tra i due sei il più bravo”. A volte trovo difficile distinguere le tre cose, ma altre volte penso che sia anche di poca importanza, o addirittura una distinzione troppo categorica. Infondo quando penso al futuro e sogno con il cuore di poter trovare casa nel cuore delle persone, non è forse una preghiera? O quando preghi perchè le tue parole e il tuo operare possano essere stati seme di qualcosa di buono, non è forse anche un sogno che insegui? O quando fermi i tuoi passi per riflettere e scontri la tua impotenza con la povertà del prossimo e chiedi cosa puoi fare, non è forse una preghiera?
Così nella preghiera, nei sogni e nei pensieri del cuore di questi giorni, mi sono ritrovato sempre più volentieri. E come poteva essere altrimenti quando la settimana ti si apre con San Francesco! 4 ottobre. Diciamocelo chiaramente: Francesco era un pazzo. Un folle. Uno che decisamente ragionava poco. Umile e nudo si è presentato e si è incamminato per il mondo... un cammino, il suo, da seguire per innamorarsi ogni giorno della povertà. Chissà se noi riusciremo, con i sandali negli ultimi, a scegliere di vivere la perfetta letitia che lui, folle Francesco fino alla fine, ci ha mostrato possibile, reale, terrena.

Un abbraccio

Sempre in forma! (?!)

“Sempre in forma!” è stata una delle raccomandazioni prima della partenza, una di quelle che non ho compreso. Forse è più espressione di un fresco apprezzamento della mia fisicità, o forse un invidioso invito a non metter su pancia, o forse ancora un genuino incoraggiamento a non buttarsi giù. O forse... beh, Mauro, cosa intendevi di preciso??

Comunque, a proposito di muscoli (anche se so benissimo che l’immagine “muscoli” non è la prima che vi viene in mente quando leggete della mia fisicità) la corsa mattutina mi dà davvero un bello slancio per iniziare la giornata. Nel pomeriggio e verso sera è difficile trovare il tempo e le condizioni. Giusto nel tardo pomeriggio di ieri, due studenti del Charles Lwanga sono venuti a chiamarmi per chiedermi se volevo fare una partita a calcio con loro. Ho risposto entusiasta che ne avevo proprio voglia. In effetti correre mi aiuta a dare ossigeno ai pensieri, ma non c’è nulla di meglio di una bella partita di calcio per sfogare le tensioni e lo stress. In due minuti mi sono preparato e ci siamo avviati tutti e tre verso il campo da calcio. Ero proprio contento, non solo per la voglia di giocare e di divertirmi, ma soprattutto perchè il loro invito spontaneo mi faceva sentire un pò più a casa.
Percorsa la strada interna del collegio che scende verso il cancello, girato l’angolo, ci trovammo ad un angolo del campo da gioco. La partita era già iniziata e mi trovai davanti ventidue ragazzi di colore... tra i diciotto e i ventidue anni... a occhio e croce il più basso mi superava almeno dieci centimetri in altezza... bicipiti color ebano enormi che si contraevano e si stendevano velocissimi e poderosi, per scatti veloci e possenti... con una potenza di tiro vigorosa...

Le mie povere e acromatiche gambe si sarebbero volentieri nascoste anzichè confontarsi e dimostrare sul terreno la loro già evidente inferiorità... ma per fortuna il gioco del calcio è anche concentrazione, tecnica e freddezza. Proprio per questo mi sono concentrato un attimo, poi con la tecnica di un campione e la dovuta freddezza mi sono congedato spiegando che improvvisamente mi era tornato alla mente una cosa urgentissima che avrei dovuto assolutamente sbrigare nell’immediato a casa, una questione di vita e di morte. Porsi le mie scuse e me ne andai promettendo di ritornare. Sì... magari quando giocano i bambini.

Mwabuka?

Primi passi per le strade di Chikuni, e l’ambiente inizia ad acquistare un’aria familiare, mentre la polvere non dà quasi più fastidio. Quasi. Ora, per andare da casa all’Home Base Care o in parrocchia, posso tranquillamente seguire la scorciatoia che taglia per pascoli e orti, ormai conosco la via e non devo più prestare attenzione o preoccuparmi di individuare l’albero o il particolare cespuglio (cacchio!! sembrano tutti uguali!!) a cui dovrei svoltare a destra piuttosto che a sinistra. Fortunatamente in Africa non c’è l’ANAS con la sua pulizia delle aree verdi ai bordi delle strade…mi perderei ogni giorno.
Intendiamoci, non è che si tratti di chissà quale camminata ed il rischio di perdersi può al massimo comportare il seguire un percorso più lungo… ma, vi prego di credermi, quando camminate sotto il sole delle 2 pm, vi augurate ogni cosa purchè di non sbagliare sentiero e aggiungere altri quindici minuti a quello che sembra, già di suo, una fatica interminabile.

La parte del sentiero che preferisco è quella che percorre la cresta del terrapieno che fa da diga al bacino di Chikuni. Ascolto l’acqua che si lascia muovere dal vento, spinta verso il canneto a riva che ne nasconde la meta finale, quasi si offrisse come ultimo e sicuro nascondiglio. Questo discreto incontro tra terra e acqua mi dà una sensazione di calma. Chissà, magari una di queste sere mi ci faccio un tuffo!! Infondo è per la maggior parte acqua, no? …anche se ogni tanto trovi mucche che si spingono fino a immergersi buona parte delle zampe (e si sa che l’acqua fredda stimola la diuresi) …anche se il fondale è decisamente melmoso …anche se il colore dell’acqua non è cristallino …anche se la schiuma a riva non ha un colore molto naturale …chissà, magari una di queste sere, quando mi viene in mente di farci un tuffo, vedo di farmi passare l’idea.
Quindi ora, quando alla mattina mi chiedono “Mwabuka?” (come va?), posso davvero rispondere portando la mano sul cuore “Gabot” (bene).

E visto che è bene ricordare (e ricordarmi) che non sono qui in vacanza, concetto molto radicato specialmente in quelli che mi conoscono meglio, parliamo ora del corso di informatica “Chikuni Lab”, che possiamo anche abbreviare in CL …no, ci-elle non mi suona poi così bene… facciamo che ce lo teniamo per intero “Chikuni Lab”. Possiamo dire che questi giorni sono stati utili per poter ultimare l’allestimento del locale che verrà utilizzato come aula, per raccogliere e scremare le adesioni al corso e per preparare le lezioni. Si tratta di un corso base, ma molto base, sull’uso di un personal computer. L’idea di fondo è di far passare quelle due/tre nozioni fondamentali per poter scrivere un documento, preparare una tabella o costruire un grafico senza danneggiare il PC e senza dovere chissà perchè riformattare il disco fisso alla fine di ogni settimana. Le competenze ci sono (mi riferisco agli studenti ovviamente). La voglia e l’entusiasmo non mancano (e in questo mi ci metto dentro anche io). Da verificare la pazienza… sarà abbastanza?

Ogni giorno ne chiedo sempre un pò durante la Messa della sera, sapendo che Lui sa quello di cui ciascuno di noi ha bisogno. Per me, non coincide con quello che voglio al momento… ma, chissà come, lo capisco solo dopo.
Un abbraccio

Chikuni (Zambia), la prima settimana

Una calura soffocante, quella che già in tarda mattinata ti avvolge per poi accompagnarti fino al tardo pomeriggio. Lunghe ore in cui l’aria pare quasi assente, quasi anche lei avesse cercato l’ombra di un mango, I cespugli intorno al fiume o qualche veranda dove nascondersi dal sole e aspettare sera. Di certo non ha scelto la mia veranda.
Ero stato avvisato del caldo e dell’effetto che ha sulla forza di volontà di ciascuno: positivo se lo si combatte e ce se ne esce vincitori continuando a svolgere le proprie attività, negativo se nelle ore più calde ci si annulla abbandonandosi in casa tra lo studio e il frigorifero con la ferma convinzione che, cascasse il mondo, non si esce prima delle quattro. Personalmente, in questa prima settimana siamo 1 a 0 a favore del caldo. Ma non pensate male: fa parte di una mia tattica, uno studio dell’avversario per poi prenderlo in contropiede…siete quindi pregati di non pensare che uno vada in Africa per poter fare la pennichella pomeridiana! Comunque, già che siamo in tema, vi sarei grato se non mi veniste a bussare alla porta di casa o se non mi telefonaste tra l’una e le quattro del pomeriggio. Grazie.
Per dovere di cronaca, anzi, mi correggo, per volere di cronaca, il viaggio è stato tanto spassoso quanto un film nigeriano (per chi non avesse mai visto un film nigeriano, beh… si ritenga fortunato ed eviti ogni conoscenza o occasione che lo possa portare a tale vissuto). Sia inteso, non mi ha mai preoccupato e nemmeno annoiato viaggiare in aereo da solo: cammini per I terminals dove hai le coincidenze, chiacchieri un pò con gli altri passeggeri, curiosi quà e là per I negozi nell’area check-in (dove è stata registrata la più alta concentrazione di beni di consumo inutili, e quindi dannosi allo spirito), ti bevi un caffè per ammazzare il tempo. Ecco, tutto questo quando viaggi di notte, il tuo volo è stato frammentato in quattro voli brevi, sosti in terminal così piccoli che ti puoi mettere in qualsiasi punto per vederne ogni angolo, oppure sosti in terminal pieni di negozi e punti di ristoro ma la tua coincidenza cade tra l’una e le cinque del mattino e a quell’ora col cavolo che trovi più di due saracinesche alzate… ecco, tutti quegli svaghi che ti assicurano un viaggio non eccitante ma quantomeno piacevole, non hanno facile applicazione.
Sempre per volere di cronaca, la mia sistemazione qui a Chikuni è davvero carina e nuova: l’alloggio che i padre gesuiti mi hanno trovato per questi tre mesi è una semplice e carina abitazione all’interno del college per insegnanti “Charles Lwanga”. Ora, per noi poveri studenti italiani, la realtà del college risulta essere un pò lontana dal nostro vissuto. Si tratta di una piccola cittadina dove non solo gli studenti, ma anche professori e bidelli praticamente vivono. Se vi ricordate “L’attimo fuggente”, avete più o meno l’idea. Ecco, prendete questa idea e datele un formato Africa! “Charles Lwanga” è davvero immenso. E vi aiuto a partecipare al mio stupore aggiungendo che impiego lo stesso tempo a raggiungere d’abitazione il cancello di entrata, che da andare dall’inizio alla fine di Barzana.
Come da modello inglese, non mancano di certo campi da calcio, pallavolo e pallacanestro e così ogni mattina mi posso concedere una corsetta prima della colazione. Altra nota positiva, condivido la casa con Mono, un giovane ragazzo che lavora come speaker alla radio locale... e chi non ha mai sognato di vivere con un DJ, dai!
Un abbraccio, ora vado a preparare qualcosa per cena.

missione...semplicemente stare

Dopo uno sguardo al passato (Marco, è metaforico! Non iniziare a guardarti in giro…), ora un tentativo di guardare in avanti. Come cristiani, o come semplici e folli sognatori, non possiamo smettere di camminare verso i nostri sogni. In particolare come cristiani non possiamo smettere di credere in Lui e nemmeno in noi, come figli capaci di costruire un presente più equo per tutti. Lo dobbiamo a noi stessi e ai nostri figli: credo che il nostro impegno verso un mondo migliore possa essere il regalo migliore che possiamo fare loro. E questo poco cambia se siamo credenti o meno.
In una mattina di pioggia, camminando riparati sotto un lungo porticato, Sara mi confidò: “Un giorno verrò anche io in Africa”, ed io:“Che cosa ti piacerebbe fare?”. Lei, semplicemente, mi disse quello che io ho impiegato tre anni per capire: “Mah…semplicemente stare con loro.”
Vivere lo stare sembra tanto semplice: potrebbe essere sufficiente fermarsi in un luogo, rimanere in una comunità a vivere per un po’ di tempo, andare d’accordo o meno con il vicino e fare magari qualche pranzo insieme. Questo potrebbe essere uno stare che a qualcuno potrebbe bastare: fermarsi–rimanere–andare d’accordo. Ma per chi parte come operatore umanitario (che sia volontariato o meno) ci si fa anche carico della responsabilità di una relazione di aiuto che, come visto prima, significa giocarsi in un rapporto di educazione.
Se partiamo dal significato di educazione come sollecitare la persona ad intraprendere un cammino di libertà (intesa come costante tensione al vero e alla verità di se stessi), allora l’educazione non può essere una pratica di dominio e nemmeno strumento di oppressione. Non un “depositare” la conoscenza da un educatore che sa agli educandi che non sanno. Paulo Freire (pedagogista brasiliano del secolo scorso) evidenzia senza mezzi termini il rischio che si corre nell’impostare una relazione educando-educatore univoca.

“Se l’educatore è colui che sa, se gli educandi sono coloro che non sanno, spetta a lui dare, consegnare, trasmettere il suo sapere a loro. Sapere che non è “esperienza fatta”, ma esperienza narrata o trasmessa.
È normale quindi che in questa educazione “depositaria” gli uomini siano visti come essere destinati ad adattarsi. Quanto più gli educandi diventano abili nel classificare in archivio i depositi consegnati, tanto meno sviluppano la loro coscienza critica, da cui risulterebbe la loro inserzione nel mondo, come soggetti che lo trasformano”
[ Paulo Freire, « la pedagogia degli oppressi »]

Quindi se educare è solamente una fredda trasmissione di conoscenze, non sarà mai a beneficio degli educandi. Il processo educativo, il cui obiettivo è la liberazione dell’educando, deve essere “problematicizzante”.

L’educazione che proponiamo a coloro che veramente si impegnano per la liberazione […] non può essere depositaria di contenuti, ma problematizzante per gli uomini nei loro rapporti col mondo. L’educazione problematizzante, contrariamente a quella depositaria, è intenzionalità, perché risposta a ciò che la coscienza profondamente è, e quindi rifiuta i comunicati e rende essenzialmente vera la comunicazione
.”[ Paulo Freire, « la pedagogia degli oppressi »]

Quella che Freire definisce come “educazione problematizzante” non è solo un aiuto agli educandi nel raggiungere un maggior grado di protagonismo nelle loro vite, ma una crescita comune tra educando e educatore i quali insieme riescono a superare la loro contraddizione necrofila in cui l’educazione depositaria si arena. Educatore ed educandi vivono un atto di conoscenza e coltivano una profetica speranza nelle capacità dell’altro. Non sentendoci unici possessori della conoscenza e sentendo forte la nostra incompletezza in quanto uomini, crediamo nelle potenzialità dell’altro e nell’importanza del cercare di “essere” di più e “in comunione”. Se scegliamo di non credere in questo, ci appiattiamo nello sterile “avere di più”: più sapere, più lavoro, più progetti, più esperienze sul proprio curriculum.
Una volta focalizzato che l’educazione di cui stiamo parlando è quella problematizzante, il secondo punto riguarda gli strumenti che non possiamo fare a meno di scegliere. Parlando di relazione interculturale e di relazione di aiuto, dobbiamo a mio avviso porre molta attenzione alla comunicazione, linguaggio verbale e non verbale.
Dialogare, in una relazione di aiuto, non può non prescindere dall’ascolto attivo: RICONOSCERE LE PROPRIE EMOZIONI per non rimanere imprigionati nelle proprie matrici percettivo-valutative; operare un’indagine variazionale per NON GIUDICARE LA VISIONE DELLA REALTÀ DEGLI ALTRI, ma provare a vederla dal loro punto di vista; cercare di VIVERE I CONFLITTI CON CREATIVITÀ ed umorismo per non far sì che le relazioni si fossilizzino in muri privandoci della ricchezza di una relazione vera e di aiuto reciproco.
Come dire, tre punti facili da seguire, no? Beh, l’importante è avere chiara la meta, la strada che poi seguiamo si traccia ogni giorno, pregando di non perdere la speranza di raggiungere un giorno i nostri sogni.
E’ importante precisare che la comunicazione non è solamente verbale, ma comprende tutto il linguaggio corporeo fatto di gestualità, di toni di voce, atteggiamenti e posture. Va curato anche quest’aspetto non verbale, specialmente quando si è inseriti in un contesto culturalmente diverso dal proprio: come il tempo speso per imparare una lingua nuova ci fa notare che suoni per noi senza senso per l’altro hanno un significato preciso, così diventa chiaro che uno stesso gesto ha per l’altro un significato e un’importanza diversa da quella che noi gli attribuiamo.
Un giorno mi venne fatta un’ osservazione dagli educatori: ogni tanto quando arrivo al centro non li saluto. Tra me e me pensai un po’ scocciato: “Non è vero, li saluto sempre!”; ma ovviamente questa posizione di puntare i piedi avrebbe fatto sentire l’altro incompreso e, siccome dipendente (e oppresso nel momento in cui inserito in una relazione dittatoriale instaurata dal suo datore di lavoro), si adatta alla mia visione accettando che la sua osservazione non sia vera. Epilogo davvero deludente. Certamente mi sono sentito irritato perché incompreso e frainteso, scocciato per aver ricevuto un’osservazione non proprio positiva ...ecco come le emozioni ci fanno capire quando ci avviciniamo ai confini delle nostre cornici… occasione per provare ad allontanarci da noi stessi e vederci dal punto di vista dell’altro… qui in Kenya, come in tante altre culture, il saluto non è tale se non c’è un contatto fisico, una stretta di mano o un abbraccio. Non ha alcun valore per l’educatore l’arrivare ad una riunione e salutare i presenti già seduti solamente con un good morning.
Anche il nostro stile di vita diventa comunicativo e acquista un ruolo importante nella relazione di aiuto. Anche così comunichiamo quanto desideriamo stare con, quanto crediamo nell’altro e nell’importanza del suo cammino di libertà, quanto vediamo nel nostro “vivere al confine” uno strumento per educare ed educarci. Allora stiamo bene attenti a come viviamo, altrimenti le nostre parole sarebbero incoerenti e la nostra prassi vuota, rendendoci falsi e ipocriti.

che concezione abbiamo dell'uomo?

La missione che vorrei vivere, quindi, è un cammino educativo mano nella mano. Ma …con chi? Chi è questo “altro”?

L’ idea che ci si fa dell’educazione e dell’educatore dipende ovviamente dalla concezione che si ha dell’uomo e del suo destino
” [Essai de philosphie religieuse Lethielleux, Paris, 1903, p. 233).]

Innanzitutto nel momento in cui parliamo di educazione, dobbiamo riferirci all’educando nella sua integrità. In più, come cristiani, abbiamo “l’aggravante” di non poter considerare l’uomo se non come noi stessi: amarlo nella stessa misura con cui amiamo noi stessi, volerci relazionare con lui nella stessa misura con cui desideriamo fare con noi stessi, scavare nella sua profondità come vorremmo scavare nella nostra. Molti pedagogisti affermano che il rapporto educativo si fonda su una relazione interpersonale in cui sono implicate non solo le conoscenze, ma soprattutto le dinamiche delle personalità di coloro che vi partecipano. Personalità che non possono mettersi in gioco se non nella loro complessità e integrità.
Quindi non ci è concesso, come laici o come atei, di vivere la missione come un superficiale “andiamo ad aiutare i poveri”, “apriamo un altro progetto per avere più beneficiari” perché cadremmo ancora una volta nel vedere l’altro solo come povero da aiutare e non saremmo in grado di costruire una relazione autentica. L’altro non è solo “il povero” o solo “il beneficiario”, l’altro è uomo, l’altro è donna, figlio o padre della sua famiglia, membro attivo o meno della sua comunità, credente di questa chiesa piuttosto che dell’altra, con tutto il suo bagaglio di conoscenze e con una fragilità di emozioni come la nostra.
L’altro è persona e, come tale, ricca di capacità e di impegno per migliorarsi. A noi la possibilità di camminare con lui. E lo SVI in questo è stato ricco di insegnamenti: pur senza parlare apertamente di educare, ha disegnato la figura del volontario come un animatore di gruppo. Che non vuol dire fare canti e balli per occupare il tempo e sentirci allegri, ma che significa far nascere e crescere un gruppo come “contesto psico-sociale assai ricco di stimoli e di possibilità in ordine alla crescita, alla maturazione e all’apprendimento” [Manuale per animatori di gruppo” K. Vopel]

essere razzisti in Africa

In Italia credo che ormai non possiamo più nasconderci: i pregiudizi verso lo straniero sono sempre tanto evidenti quanto radicati. Classiche le chiacchiere da bar (che diventano allarmanti se ascoltate in un comizio politico, deludenti se sentite tra la gente appena uscita da Messa), tutte riferite all’albanese o al nord africano di turno. Una classificazione bigotta che dimostra a mio avviso tre fatti: un senso di ripulsa di quello che non si conosce, una paura nel guardare e mettere sotto giudizio i propri paletti, una grande ignoranza del gregge.
Lo stesso purtroppo vale anche qui in Africa, dove davvero non avrei pensato di scontrarmici. Certamente non si tratta dello stesso tipo di pregiudizio, ma tanto come il primo porta ad una rigida classificazione che frena uno scambio, limitando dal principio una reciproca educazione. Con l’aggravante che qui siamo a casa loro. Nel momento in cui si parte dal classico senso di bontà e di paternalismo positivo ma cieco, questo stesso “santo” atteggiamento non permette di riconoscere nell’altro la capacità di scelta di cui è dotato e creerà un bel terreno fertile per un atteggiamento di di ripulsa e di ostilità, fino alla discriminazione.
Africa. Zona povera. L’ONG di turno arriva e vede che la gente non ha un buon raccolto causa le piogge troppo scarse o troppo forti. Progetto e si parte con la costruzione di serre per aumentare la produttività della comunità. Gli operatori costruiscono, illustrano, insegnano e poi se ne vanno. Nel giro di tre mesi le serre sono abbandonate, altri tre mesi e se ne vedono solo gli scheletri. L’Ong torna per una valutazione, il commento che ne nasce è che “questi sono proprio lazzaroni e incapaci; e noi con tutto quello che abbiamo speso, ma che si arrangino!!”…
…Pronto??? Ma chi la voleva la serra?

l'incontro interculturale

Il vivere quotidiano immerso in una cultura diversa dalla mia è stata la prima prova da affrontare. Quando parti e ti fai chilometri cambiando non solo nazione ma anche continente, non trovi più quegli appoggi esterni che casa tua ti garantiva costantemente.
Ti trovi quindi di fronte a due possibilità: cercare di ritrovare quegli stessi punti di appoggio o costruirne di nuovi. Questo diverso modo di affrontare l’incontro interculturale è descritto a mio avviso molto chiaramente dall’antropologa Marinella Scalvi (in “Arte di ascoltare e mondi possibili – come si esce dalle cornici di cui siamo parte”), la quale traccia una chiara distinzione tra i due atteggiamenti. Non mi pare il caso di riprendere ora e in dettaglio ogni aspetto da lei descritto in merito, ma mi piacerebbe tracciare a grandi linee il suo pensiero, per poi confrontare le sue conclusioni teoriche con le mie esperienze.

Quello che la Scalvi ci spiega è che il nostro processo conoscitivo comporta la strutturazione di un campo per definire le possibilità logiche entro cui ci possiamo muovere. Questo processo, vissuto consciamente o inconsciamente, definisce le gestalt: matrici percettivo-valutative in cui, diciamo, ci sentiamo tranquilli. In altre parole, quando osserviamo dei fenomeni li confrontiamo tra loro ipotizzando delle relazioni logiche per ricavarne spiegazioni poi già valide per interpretare i fenomeni che osserveremo successivamente. Questo processo gestaltico ci offre, a livello emozionale, una certa sicurezza all’interno dei nostro cammino: osserviamo una certa situazione e abbiamo già un quadro generale in cui metterla per capirla. Inseriti nella propria cultura, queste spiegazioni sono le stesse quasi per tutti: le mie gestalt coincidono più o meno con quelle del mio vicino nel senso che diamo la stessa spiegazione alla stessa cosa. Quando però si è inseriti in un ambiente complesso, in cui cioè gli stessi fenomeni assumono significati diversi, le cose cambiano.
Come muoverci in questa sorta di incomprensione? Possiamo decidere di rimanere dentro le nostre cornici per super-proteggerci. Oppure possiamo fermarci un attimo, uscire da noi e librarci da una spanna da terra chiedendoci: “perché trovo strano il loro atteggiamento?”, “perché io farei diversamente?”. In tal modo ci poniamo al confine delle nostre cornici e ci domandiamo se esse valgano ancora. E’ naturale avvertire una sorta di resistenza, di insensatezza, in certi casi anche di senso del ridicolo e perfino di ansia.
“Certamente quando ci immergiamo nella vita quotidiana di una cultura diversa dalla nostra la sensibilità per “le stesse cose” con significati differenti deve essere sempre all’erta, è lo strumento principale per la comprensione reciproca, per costruire dei ponti.”
[ Marinella Scalvi, “Arte di ascoltare e mondi possibili – come si esce dalle cornici di cui siamo parte”]
Durante la celebrazione della Santa Messa, ogni volta succede la stessa cosa. Siamo seduti otto in un banco per otto, logico no? Arriva poi il nono e con uno sguardo fa capire che si vuole sedere anche lui nello stesso banco, così gli altri fanno per stringersi un po’ e farlo accomodare. Ora siamo un po’ stretti e scomodi, ma niente in confronto a quando arrivano il decimo e l’undicesimo. Le prime volte trovavo la cosa veramente maleducata, quando poi vedevo che negli altri banchi c’erano posti liberi, allora provavo anche irritazione e perfino rabbia nei loro confronti. “Ma sei imbecille? Ci sono posti vuoti dietro di noi e tu vieni a sederti qui che è già pieno? E voi che gli fate spazio senza dire nulla...”. Ho visto poi che qui la gente ha una concezione dello spazio diversa dalla mia, per me un posto a sedere è, come dire, “60 centimetri, quanto basta per non toccarmi con il vicino”, per loro è “mah, quanto basta per starci”. Io vedo un divano per tre persone, loro lo vedono per sei o sette persone.
Anche sui mezzi pubblici vale lo stesso. Ci sono quattordici posti a sedere, almeno così è scritto nel libretto di circolazione e nella mia testa, ma quante volte si è in quattordici e non si parte perché “non è ancora pieno”, quante volte si è già in una ventina di persone più bagagli e sacchi e galline, e l’autista si ferma per far salire altri passeggeri.
Di fronte ad una visione della realtà diversa dalla propria, non è certo automatico accettarla. Accettare che non vuol dire assumerla in sostituzione della propria o giustificarla o approvarla, ma significa DARLE LO STESSO VALORE: PONGO LA TUA VISIONE ALLO STESSO LIVELLO DELLA MIA. Il senso di insensatezza e addirittura la rabbia e l’ansia che quasi naturalmente si provano di fronte ad un comportamento che non riusciamo a spiegarci, ci possono condurre a due reazioni opposte: cercare di difendere la nostra gestalt fino a diventare anche aggressivi per poterla riaffermare, puntando i piedi e chiedendoci di chi è la colpa; oppure vivere questa ansia come segnale che siamo al confine della nostra cornice percettivo-valutativa e che abbiamo quindi la possibilità di vivere un cambiamento della stessa. La Scalvi stessa definisce questo atteggiamento “LIBRARSI A UNA SPANNA DA TERRA” per osservarci.
Sono d’accordo con lei nel credere che se non riusciamo a vedere le nostre cornici, non riusciamo nemmeno a comprendere i nostri limiti e il dialogo interculturale si brucerebbe in uno scontro tra due diversi modi di vedere, tra due punti di vista che non riescono ad incontrarsi: ognuno pretende di aver ragione e alla fine si fa “cosa dice il capo” non perché ha ragione, ma perché è lui che comanda.
Se invece provassimo a riconoscere le nostre emozioni, potremmo avvertire quando uno “scontro” è nell’aria ed essere pronti per affrontarlo mettendo sul tavolo non solo le nostre presupposte ragioni, ma anche le nostre matrici percettivo-valutative. Perché “
è solo agli occhi di un’altra cultura che la nostra propria cultura si rivela più completamente e più profondamente (ma mai esaustivamente, perché ci saranno sempre altre culture che sapranno vedere e comprendere ancora meglio)
” [Michael Bachtin]
Il discorso è molto complesso e mette in relazione l’ascolto attivo, l’autoconsapevolezza emozionale e la gestione creativa dei conflitti. Tre elementi fondamentali che dovrebbero caratterizzare l’incontro interculturale. Ma quello che voglio sottolineare è che vivere in una cultura diversa porta quotidianamente ad incontrare matrici differenti e a vivere sempre sul confine della propria. E allora L’UNICO ATTEGGIAMENTO COSTRUTTIVO È ESSERE UMILI, SENTIRSI UOMINI COME GLI ALTRI, PER INCONTRARSI. Se partiamo da valori di base quali il riconoscimento, il rispetto dell’altro e la ricerca per costruire un mondo migliore, allora non possiamo che sforzarci di “librarci ad una spanna da terra” per vedere noi e l’altro insieme, ognuno con le proprie cornici che si incontrano e si sovrappongono. I tre anni mi hanno dato questa ricchezza: LA NECESSITÀ QUOTIDIANA DI METTERE IN GIOCO LE MIE CONVINZIONI E LA MIA CULTURA PER POTER COSTRUIRE PONTI.

librarsi ad una spanna da terra

Molti di noi si saranno chiesti almeno una volta “Dove stiamo andando?”, “Cosa abbiamo dentro che ci spinge?”, “Cosa mi cucino per cena?”. Interrogativi che prima o poi fanno sentire il bisogno di una risposta per poter andare avanti, e anche per non andare a dormire affamati.
Per me sono domande sempre molto forti, forse perché non ho ancora capito nulla della vita, forse perché sono stanco di far cena con una tazza di latte. Sono interrogativi che, alla fine, mi hanno portato ad una solo questione: se desidero capire il perché del mio agire, se voglio affrontare responsabilmente una decisione, devo aver chiaro chi e che cosa pongo al centro delle mie giornate.
Se si fa un viaggio “responsabile” in un paese del Sud del mondo, è difficile non incappare in progetti di aiuto e di cooperazione falliti, la maggior parte non riusciti proprio perché non costruiti sui bisogni della comunità o, meglio, perchè creati su bisogni che la comunità sentiva come non prioritari o non propri. Lo SVI ha ben chiaro questa problematica e ne riconosce i rischi. Un qualsiasi tipo di intervento esterno comporta un cambiamento dell’ambiente e della cultura della popolazione che si incontra. Perché sia un cambiamento duraturo e fruttuoso, il beneficiario va messo al centro di questo cambiamento fin dall’inizio. In caso contrario, i vantaggi apportati finiranno insieme al progetto: partiti gli operatori umanitari, si ritornerà alle condizioni di vita precedenti al progetto.
Proprio pochi giorni fa stavo parlando con mio zio, fidei donum in Costa d’Avorio dal 1985. Sentendomi dire che in Kenia le attività procedono ma si correva sempre senza mai riuscire a finire quanto programmato, mi ha detto con tutta la sua calma e pazienza: “GUARDA CHE L’AFRICA NON LA CAMBIEREMO CERTO NOI”. Questa frase gira e rigira nella mia testa… se il popolo africano, e come esso qualsiasi popolo oppresso, vivrà un cambiamento reale e forte verso una condizione migliore, sarà perché lo ha voluto e lo ha scelto lui. Noi possiamo solamente accompagnarlo ed educarlo. Educarlo che non vuol dire farlo depositario delle nostre conoscenze, ma EDUCARLO CON IL FINE DI SVILUPPARE NEL POPOLO UNA PROPRIA CONOSCENZA CRITICA, DI FAR EMERGERE LE COSCIENZE PERCHÉ DIVENTINO PROTAGONISTE NELLA REALTÀ, DI FAR ACQUISIRE LA CAPACITÀ DI PENSARE E DI AGIRE.
A questo scopo noi operatori, NOI VOLONTARI CHE VIVIAMO SU QUESTA LINEA DI CONFINE, DOBBIAMO AVERE IL CORAGGIO DI METTERCI DA PARTE, DI AVERE FIDUCIA E DI CREDERE NELL’UOMO E NELLE SUE CAPACITÀ. Noi i primi a provare amore per l’uomo (e qui spero che la mia morosa non fraintenda)
Così l’incontro diventa processo educativo e richiede il cambiamento di entrambe le parti in gioco. Amo fortemente questo atteggiamento, e voglio affermare che la relazione di aiuto diventa tale, piena e vera se ha come punti di inizio l’oppresso e il volontario: il primo nel riconoscere i propri bisogni per soddisfarli e potersi liberare, il secondo nell’assumere un atteggiamento radicale, un atto di amore in pienezza per camminare con e per il primo.

Ad Gentes

In tutti questi discorsi, in questo mio credere in un atteggiamento di umiltà nei confronti dell’altro per poter camminare insieme verso un mondo migliore (e possibile!), nell’impegnarmi in un rapporto di educazione reciproca e ostinatamente animare l’altro perché possa trovare la sua strada, sono partito dalla Parola e dal non nascondere il battito che essa faceva nascere in me.
Per questo avevo dato per scontato il poter trovare missionari religiosi come principali punti di appoggio morale. Certo li ho trovati, ma spiazzante e demoralizzante è stato sentirmi, con alcuni di essi, dalla parte opposta: sentirmi rimproverare per il mio modo di relazionarmi mi ha fatto davvero male, perché è andato a toccare non solo il mio operato, ma anche la mia fede.
Ho voluto allora rimettermi in discussione, cercando di vedere dove avevo commesso gli sbagli che mi venivano rimproverati. Prima di partire, proprio i missionari mi avevano aiutato a comprendere e a scoprire dentro di me lo spirito “ad Gentes”. Sono tornato su quelle pagine…

Tutti i cristiani sono tenuti a manifestare con l’esempio della loro vita e con la testimonianza della loro parola l’uomo nuovo. […] Ma perché essi possano dare utilmente questa testimonianza, debbono stringere rapporti di stima e di amore con questi uomini e dimostrarsi membra vive di quel gruppo umano […] improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, dimostrando tutte le ricchezze che Dio ha dato ai popoli.” [Ad Gentes, 11]

Essa [la Chiesa] non rivendica a se stessa altra sfera di competenza, se non quella di servire amorevolmente e fedelmente, con l’aiuto di Dio, gli uomini. I discepoli di Cristo, mantenendosi in stretto contatto con gli uomini nella vita e nell’attività, si ripromettono così di offrir loro un’autentica testimonianza cristiana e di lavorare alla loro salvezza. […] Essi infatti non cercano il progresso e la prosperità puramente materiale degli uomini, ma intendono promuovere la loro dignità e la loro fraterna unione” [Ad Gentes, 12]

Ma allora cosa c’è che non va? Educare… stare con… animare… non mi sembrano poi tanto lontani da queste parole.
GIM e SVI e questi tre anni mi hanno insegnato a credere nell’altro se si vuole camminare insieme, a sentire l’umiltà come valore di vita, ad accettare di vivere al confine. Da questo la scelta di educare, di stare con, di animare. Di camminare insieme, sullo stesso piano. Credendoci, come uomo e come cristiano, ci ho provato e ci ho faticato. E la gioia di raccogliere i frutti è stata meravilgiosa…poi però lo scontro con chi si impone con arroganza “Devi capire il principio che se non gli stai con il fiato sul collo, loro non fanno niente” ... Principio?! Stare con il fiato sul collo?! Sembra proprio che qualcuno preferisca essere ascoltato perchè temuto e non perchè stimato.
Ho riflettuto e ho iniziato a pensare non dove avevo sbagliato, ma “se” avevo commesso qualche sbaglio.

Da che parte decidiamo di stare?

Tre anni in Africa. Arrivato nel maggio 2007 in Uganda, mi sono poi spostato in Kenya nel novembre 2008 per poi starvi fino al luglio 2010. Spero sia comprensibile la difficoltà che provo nello scrivervi quanto vissuto ...inizio a raccontarvi di cosa mi occupavo, nella speranza che poi le parole seguino i pensieri e ci portino insieme a respirare ancora un pò di Africa. Un profumo che inizia già a mancarmi.

Prima in Karamoja (nord-est ugandese) inserito in un progetto ministeriale per lo sviluppo delle comunità rurali, mi traferii poi a Nakuru (per popolazione quarta o quinta città del Kenya; ovviamente per chi ci abita è la quarta, ma visto che siamo in Africa, nessuno lo può confermare con certezza). A Nakuru ci arrivai grazie all’UMMI e alla richiesta di don Luciano, missionario calabriano, che già si trovava a Nakuru da un anno e mezzo, per prestare aiuto volontario alle attività sociali da lui gestite. In linea con il carisma calabriano, le attività erano mirate all’assistenza dei ragazzi emarginati dalla società. Cosa che a Nakuru si traduce in assistenza a beneficio di ragazzi di strada e di ragazze vittime di maltrattamenti e abusi sessuali. Infatti, nonostante Nakuru conti numerose banche, scuole pubbliche e private, ospedali e cliniche, l’assistenza sociale pubblica è ancora povera in termini di organizzazione e di strutture (ma non in termini di fondi, come nella migliore contraddizione africana).
Obbiettivo di queste attività di assistenza, coordinate sotto l’associazione “Welcome to the Family”, è di andare incontro ai bisogni dei ragazzi. Ci sono tre centri, uno diurno mentre gli altri residenziali, in cui i ragazzi accolti...
...di esperienze ne potete leggere quante ne volete su riviste missionarie e articoli pubblicati da organismi non governativi, altri ancora nella rete curiosando tra blogs e portali di informazione. Soprattutto mentre ci si avvicina al periodo natalizio.
Allora cosa c’è di nuovo in questi miei tre anni? Che significato dare alle parole volontariato, aiuto, cooperazione dopo questi tre anni? Se ogni relazione nasce da un incontro per poi maturare nel tempo, allora dove mi ha condotto questo legame con l’Africa?
La strada percorsa quotidianamente mi ha condotto verso progetti positivi e negativi, insieme a persone che credono nel costruire un mondo migliore, e altre che si trovano in Africa perchè in Italia si sentono disadattate. Tra attività nate per l’aiuto all’altro e altre solamente per l’autofinanziamento. E in tutto questo il senso del fare volontariato, dell’operare per la pace e lo sviluppo, si mescola con professionalità fine a se stessa. Ed il popolo africano lì che osserva, accogliendo tutti: chi partito per amore per gli altri, e chi per amore di sè.
Ma parliamoci chiaro: che senso ha oggi operare in contesti di povertà? Perchè ci sono ancora operatori che vedono nell’assistenzialismo un aiuto per l’Africa? Provato sulla mia pelle, l’aiuto al povero non è dentro un buonismo paternalista e cieco (in cui se riflettiamo è la nostra generosità ad essere al centro della relazione di aiuto, e non i bisogni e le capacità dell’oppresso). Non è nemmeno in un intervento stabilito a priori e che replica attività di assistenza da un contesto ad un altro. La relazione di aiuto, punto di partenza e direzione del mettersi in gioco con e per l’altro, vive e respira nel nostro metterci da parte non appena mettiamo piede in terra africana. Cresce nel nostro vivere l’umiltà con ogni parola e con ogni gesto. Si fa vera nel momento in cui poniamo con radicalità l’oppresso unico protagonista del suo processo di liberazione. Non la nostra progettualità ma la sua. Non i nostri bei discorsi e prediche, ma le sue idee e le sue mani.
Se queste mie parole sono un risveglio troppo forte, vi lascio con quelle papali dell’enciclica Ad Gentes, con l’invito da cristiano a cristiano di riprenderla e rileggerla.

Tutti i cristiani sono tenuti a manifestare con l’esempio della loro vita e con la testimonianza della loro parola l’uomo nuovo. […] Ma perché essi possano dare utilmente questa testimonianza, debbono stringere rapporti di stima e di amore con questi uomini e dimostrarsi membra vive di quel gruppo umano […] improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, dimostrando tutte le ricchezze che Dio ha dato ai popoli. [Ad Gentes, 11]

Se c’è ancora qualche dubbio e ritenete che l’Africa ha assolutamente bisogno della guida e della supervisione bianca altrimenti “non lavora”, beh... forse avete ragione voi. Infondo così sarebbe più comodo per tutti, specialmente per chi, bianco, arriva in Africa e viene messo sul piedistallo sociale come guida della comunità (senza alcun merito). La storia ha davvero insegnato il contrario, ma forse non ancora abbastanza. Forse siamo ancora troppo legati alle nostre comodità per non svegliarci davvero ammettendo che la loro povertà permette il nostro benessere. Lo sappiamo tutti ma costa dichiararlo. Possiamo inquinare e consumare acqua ed energia quanto vogliamo fintanto che nessuno educhi il povero ad avere coraggio, conoscenza e forza di alzare la testa per reclamare i propri diritti.

E finchè non riusciremo a comprendere e a vivere com-passione insieme al popolo africano sapendo metterci da parte, allora la povertà dell’Africa siamo noi.

a proposito di Kira ...

Per chi mi chiede a proposito dei cani, per chi ne fosse interessato, anche per chi crede che una carezza e uno sguardo siano piu' educativi di un calcio e di una bastonata… beh, Kira e Steron stanno bene.
Secondo, devo ammettere che ho sbagliato a giudicarle delle brave compagne. Forse ero accecato da un certo senso di paternalismo, forse non volevo ammettere i miei errori nell’educarle, e ringrazio chi con particolare tatto mi ha aperto gli occhi, chi con sensibilità mi ha accompagnato verso una visione, no anzi, verso la giusta visione della realtà.
Così, rientrato dall’Italia, ho visto finalmente chiaro l’enorme problema creato dalla presenza di Kira e Steron, dal terrore che seminavano al loro passaggio tra i bambini del quartiere che se a prima vista sembravano chiamarle, aspettarle lungo la strada, accarezzarle e giocarci, in realtà questi bambini avevano una paura folle, e chissà che qualcuno abbia subito anche il cosiddetto “trauma psicologico canino infantile”.
Così sono riuscito a vederle per quelle che sono in realtà: due ferocissimi canini selvaggi, molto vicino di aspetto e di ferocia a lupi rabbiosi. Per controllare Kira, per esempio quando si allontanava per esplorare il territorio (probabilmente per preparare una battuta di caccia o l’assalto alla scolaresca di ritorno da scuola), mi era necessario chiamarla ben una volta. E se volevo restasse di guardia al cancello senza che mi seguisse, dovevo guardarla e dirle di restare ferma indicando il cancello con il dito!! Ma vi sembra una cosa normale? Dai!
Il peso e l’altezza che ormai avevano raggiunto mi aveva ormai messo in difficoltà anche nel contenerle fisicamente. Entrambe erano alte quasi 40 cm! E Kira credo che avesse di poco superato i 15 kili. Incontenibili!
Mentre le ragazze… povere loro! Come ho fatto a pensare che cani e bambine potessero convivere? Che stupidaggine! Una delle più piccole all’inizio non poteva neanche avvicinarsi a Kira, passati poi tre mesi, piano piano, si avvicinava, fino poi a vincere la paura. Poverina, che terribilissima esperienza ha dovuto vivere! E invece una tra le più grandi era solita al ritorno da scuola prendere in braccio Steron e coccolarlo. Povera ragazza, chissà che sforzo ha dovuto sopportare.
Per non parlare poi di quello che succedeva di notte! Indicibile!! Non appena qualcuno sostava nei pressi del cancello… i cani abbaiavano! E se poi qualche ubriaco che dal vicino bar usciva dal locale per urinare contro il muro, i cani abbaiavano ancora! E che dire se qualche persona dal campo vicino si appoggiava alla rete che segna il confine… apriti cielo! Abbaiavano a più non posso!
Fortunatamente, con un inganno sono riuscito a convincere una delle nostre educatrici a portarsele a casa sua. Ah ah ah. Basta cani! E Dio ci scampi dal loro ritorno! Bestie feroci!

Ora la calma e la tranquillità regnano nel giardino e nell’orto.
Peccato che solo nell’ultimo mese è già avvenuto un furto e le educatrici si sono lamentate che qualcuno è entrato scavalcando la recinzione vicino alla casa.
Ed il tempo che ho perso con loro? Incalcolabile! Ed ormai perduto…

… MA È IL TEMPO CHE HAI PERDUTO PER LA TUA ROSA CHE HA FATTO LA TUA ROSA COSÌ IMPORTANTE… GLI UOMINI HANNO ORMAI DIMENTICATO QUESTA VERITÀ.