Grazie...

... a quelli che partono con la voglia di stare, a quelli che vivono il Vangelo prima di predicarlo,
a quelli che non smetteranno mai di sognare, a quelli che l'Amore è solo con la maiuscola,
a quelli che si accettano come sono, a quelli che piangono ad ogni partenza,
a quelli che Africa e Gioia si confondono ogni giorno, a quelli che vivono di emozioni,
a quelli che non smettono di camminare, a quelli che non si abbandonano mai,
a quelli che pregano, a quelli che sul piedistallo non ci vogliono stare, a quelli che Dio non è morto,
a quelli che si vive anche senza moda, a quelli che pensano con il cuore,
a quelli che non scelgono per comodità, a quelli che soffrono e poi ti guardano negli occhi più ricchi di prima,
...e anche a quelli che "Gianpi ci hai rotto con questi ringraziamenti"

librarsi ad una spanna da terra

Molti di noi si saranno chiesti almeno una volta “Dove stiamo andando?”, “Cosa abbiamo dentro che ci spinge?”, “Cosa mi cucino per cena?”. Interrogativi che prima o poi fanno sentire il bisogno di una risposta per poter andare avanti, e anche per non andare a dormire affamati.
Per me sono domande sempre molto forti, forse perché non ho ancora capito nulla della vita, forse perché sono stanco di far cena con una tazza di latte. Sono interrogativi che, alla fine, mi hanno portato ad una solo questione: se desidero capire il perché del mio agire, se voglio affrontare responsabilmente una decisione, devo aver chiaro chi e che cosa pongo al centro delle mie giornate.
Se si fa un viaggio “responsabile” in un paese del Sud del mondo, è difficile non incappare in progetti di aiuto e di cooperazione falliti, la maggior parte non riusciti proprio perché non costruiti sui bisogni della comunità o, meglio, perchè creati su bisogni che la comunità sentiva come non prioritari o non propri. Lo SVI ha ben chiaro questa problematica e ne riconosce i rischi. Un qualsiasi tipo di intervento esterno comporta un cambiamento dell’ambiente e della cultura della popolazione che si incontra. Perché sia un cambiamento duraturo e fruttuoso, il beneficiario va messo al centro di questo cambiamento fin dall’inizio. In caso contrario, i vantaggi apportati finiranno insieme al progetto: partiti gli operatori umanitari, si ritornerà alle condizioni di vita precedenti al progetto.
Proprio pochi giorni fa stavo parlando con mio zio, fidei donum in Costa d’Avorio dal 1985. Sentendomi dire che in Kenia le attività procedono ma si correva sempre senza mai riuscire a finire quanto programmato, mi ha detto con tutta la sua calma e pazienza: “GUARDA CHE L’AFRICA NON LA CAMBIEREMO CERTO NOI”. Questa frase gira e rigira nella mia testa… se il popolo africano, e come esso qualsiasi popolo oppresso, vivrà un cambiamento reale e forte verso una condizione migliore, sarà perché lo ha voluto e lo ha scelto lui. Noi possiamo solamente accompagnarlo ed educarlo. Educarlo che non vuol dire farlo depositario delle nostre conoscenze, ma EDUCARLO CON IL FINE DI SVILUPPARE NEL POPOLO UNA PROPRIA CONOSCENZA CRITICA, DI FAR EMERGERE LE COSCIENZE PERCHÉ DIVENTINO PROTAGONISTE NELLA REALTÀ, DI FAR ACQUISIRE LA CAPACITÀ DI PENSARE E DI AGIRE.
A questo scopo noi operatori, NOI VOLONTARI CHE VIVIAMO SU QUESTA LINEA DI CONFINE, DOBBIAMO AVERE IL CORAGGIO DI METTERCI DA PARTE, DI AVERE FIDUCIA E DI CREDERE NELL’UOMO E NELLE SUE CAPACITÀ. Noi i primi a provare amore per l’uomo (e qui spero che la mia morosa non fraintenda)
Così l’incontro diventa processo educativo e richiede il cambiamento di entrambe le parti in gioco. Amo fortemente questo atteggiamento, e voglio affermare che la relazione di aiuto diventa tale, piena e vera se ha come punti di inizio l’oppresso e il volontario: il primo nel riconoscere i propri bisogni per soddisfarli e potersi liberare, il secondo nell’assumere un atteggiamento radicale, un atto di amore in pienezza per camminare con e per il primo.