Per chi mi chiede a proposito dei cani, per chi ne fosse interessato, anche per chi crede che una carezza e uno sguardo siano piu' educativi di un calcio e di una bastonata… beh, Kira e Steron stanno bene.
Secondo, devo ammettere che ho sbagliato a giudicarle delle brave compagne. Forse ero accecato da un certo senso di paternalismo, forse non volevo ammettere i miei errori nell’educarle, e ringrazio chi con particolare tatto mi ha aperto gli occhi, chi con sensibilità mi ha accompagnato verso una visione, no anzi, verso la giusta visione della realtà.
Così, rientrato dall’Italia, ho visto finalmente chiaro l’enorme problema creato dalla presenza di Kira e Steron, dal terrore che seminavano al loro passaggio tra i bambini del quartiere che se a prima vista sembravano chiamarle, aspettarle lungo la strada, accarezzarle e giocarci, in realtà questi bambini avevano una paura folle, e chissà che qualcuno abbia subito anche il cosiddetto “trauma psicologico canino infantile”.
Così sono riuscito a vederle per quelle che sono in realtà: due ferocissimi canini selvaggi, molto vicino di aspetto e di ferocia a lupi rabbiosi. Per controllare Kira, per esempio quando si allontanava per esplorare il territorio (probabilmente per preparare una battuta di caccia o l’assalto alla scolaresca di ritorno da scuola), mi era necessario chiamarla ben una volta. E se volevo restasse di guardia al cancello senza che mi seguisse, dovevo guardarla e dirle di restare ferma indicando il cancello con il dito!! Ma vi sembra una cosa normale? Dai!
Il peso e l’altezza che ormai avevano raggiunto mi aveva ormai messo in difficoltà anche nel contenerle fisicamente. Entrambe erano alte quasi 40 cm! E Kira credo che avesse di poco superato i 15 kili. Incontenibili!
Mentre le ragazze… povere loro! Come ho fatto a pensare che cani e bambine potessero convivere? Che stupidaggine! Una delle più piccole all’inizio non poteva neanche avvicinarsi a Kira, passati poi tre mesi, piano piano, si avvicinava, fino poi a vincere la paura. Poverina, che terribilissima esperienza ha dovuto vivere! E invece una tra le più grandi era solita al ritorno da scuola prendere in braccio Steron e coccolarlo. Povera ragazza, chissà che sforzo ha dovuto sopportare.
Per non parlare poi di quello che succedeva di notte! Indicibile!! Non appena qualcuno sostava nei pressi del cancello… i cani abbaiavano! E se poi qualche ubriaco che dal vicino bar usciva dal locale per urinare contro il muro, i cani abbaiavano ancora! E che dire se qualche persona dal campo vicino si appoggiava alla rete che segna il confine… apriti cielo! Abbaiavano a più non posso!
Fortunatamente, con un inganno sono riuscito a convincere una delle nostre educatrici a portarsele a casa sua. Ah ah ah. Basta cani! E Dio ci scampi dal loro ritorno! Bestie feroci!
Ora la calma e la tranquillità regnano nel giardino e nell’orto.
Peccato che solo nell’ultimo mese è già avvenuto un furto e le educatrici si sono lamentate che qualcuno è entrato scavalcando la recinzione vicino alla casa.
Ed il tempo che ho perso con loro? Incalcolabile! Ed ormai perduto…
… MA È IL TEMPO CHE HAI PERDUTO PER LA TUA ROSA CHE HA FATTO LA TUA ROSA COSÌ IMPORTANTE… GLI UOMINI HANNO ORMAI DIMENTICATO QUESTA VERITÀ.
Grazie...
... a quelli che partono con la voglia di stare, a quelli che vivono il Vangelo prima di predicarlo,
a quelli che non smetteranno mai di sognare, a quelli che l'Amore è solo con la maiuscola,
a quelli che si accettano come sono, a quelli che piangono ad ogni partenza,
a quelli che Africa e Gioia si confondono ogni giorno, a quelli che vivono di emozioni,
a quelli che non smettono di camminare, a quelli che non si abbandonano mai,
a quelli che pregano, a quelli che sul piedistallo non ci vogliono stare, a quelli che Dio non è morto,
a quelli che si vive anche senza moda, a quelli che pensano con il cuore,
a quelli che non scelgono per comodità, a quelli che soffrono e poi ti guardano negli occhi più ricchi di prima,
...e anche a quelli che "Gianpi ci hai rotto con questi ringraziamenti"
"Proseguite il cammino"
OTTOBRE 2009
Questo mese è stato per me particolarmente caro, è stato speciale per la festività di San Francesco che lo ha aperto, poi quelle di San Daniele Comboni e di San Giovanni Calabria che l’hanno accompagnato. Infine c’è anche il mio ritorno in Italia per le vacanze. Ma c’è qualcosa d’altro che rende questo mese ancora più ricco: si conclude il mio primo anno di servizio qui a Nakuru, ed è tempo di riflessione!
Come gli altri anni, anche questo mi è scivolato tra le mani, trascorrendo giorno dopo giorno regalando attimi senza però fermarsi, offrendomi la libertà di cogliere quel momento presente schiacciato tra un passato a volte da rimpiangere e un futuro tutto da programmare tra tante scelte e ancora mille sogni da inseguire.
Vorrei ritagliarmi ora un piccolo spazio per guardare il cammino percorso e vedere un po’ cosa ho tolto e cosa ho messo nello zaino camminando per le strade di Nakuru e, in uno sguardo più ampio, per le strade durante questi due anni e mezzo di Africa.
A CIASCUNO IL SUO
Progetti di cooperazione internazionale, assistenzialismo, animazione, collaborazione, ricerca-azione attiva, evangelizzazione, attività sociali… a ciascuno il suo. Tutti siamo qui per fare del bene e forse basterebbe questo per liberarci la coscienza dai dubbi che ogni giorno nascono sul nostro operato.
Forse basterebbe questo. Ma facciamoci un po’ di critica, che non fa mai male.
Sostanzialmente non credo che la differenza tra le diverse tipologie di relazione di aiuto nasca dall’appartenere ad una ONG (grande o piccola che sia) o ad una congregazione. In Africa il bianco è bianco e pare che poco importi la sua ragione sociale, l’importante è che sia di supporto alla comunità.
Supporto che può essere molto concreto come un progetto agricolo o una distribuzione di beni di prima necessità in una fase di emergenza della comunità. Oppure un supporto meno tangibile come può essere un’attività di insegnamento professionale o di catechesi evangelica. A ciascuno programmare la propria attività. Ma la differenza non sta qui, qualcosa di positivo lo si fa sempre dato che ogni progetto di assistenza nasce dal sopperire ad un bisogno della comunità. Se poi il bisogno è stato espresso dalla comunità tanto meglio, altrimenti la chiusura del progetto significherà inevitabilmente la fine di ogni attività ad esso correlata. Nel qual caso si spera che il seminato abbia già dato frutto.
Gli operatori internazionali possono essere altamente professionali o semplicemente giovani cristiani volontari che si mettono a disposizione, ma anche qui non nasce la differenza tra un positivo operare nella comunità ed uno, diciamo, meno positivo.
Certamente l’essere o meno professionali, la tipologia di progetto in cui si è inseriti, l’appartenere ad una ONG piuttosto che il collaborare in stretto legame a missionari religiosi, sono tra i mille fattori che condizionano il proprio operare poiché sono parte del proprio bagaglio e tracciano i binari da seguire. Ma non ho visto tra questi l’elemento decisivo, il cardine del proprio agire, quel fattore che fa la differenza tra chi getta il seme al vento e chi invece prepara un buon terreno, attende la pioggia e poi affida il seme alla terra. Tra chi fa della propria testimonianza un punto di arrivo, come uno specchio per guardare solo se stesso, e chi invece ne fa una continua ricerca di sè sempre più critica e in profondità.
LE RELAZIONI INTERPERSONALI, IL DIALOGO
All’inizio ero convinto che “tu lavori in Africa in un progetto” o “tu sei missionario” equivalessero a dire “tu sei una brava persona, modello da seguire, perché fai del bene”. Che in parte è vero dato che, come ho detto prima, il proprio operato è comunque e in qualche misura di aiuto. Ma è proprio questa misura che può aumentare o decrescere in funzione del nostro essere e del nostro operare, possibilità che mi spinge non solo a valutare ogni mia azione, come se mi immergessi in un continuo processo di problem solving, ma anche a pesare ogni mia parola.
Perché il fattore cardine risiede nelle relazioni interpersonali che si è capaci di instaurare, relazioni che si costruiscono proprio intorno alla parola. In essa la nostra riflessione si accompagna alla nostra azione poiché queste in essa nascono, crescono, si evolvono entrando in relazione con altre, dando forma (anche se in continua evoluzione) a quella prassi che caratterizza in modo unico il nostro essere e, in diretta conseguenza, il nostro operare.
In altri termini, provando a spiegare questo concetto percorrendolo al contrario, l’operare di ciascuno è strettamente caratterizzato dall’incontro tra la propria capacità di riflettere su se stessi e sull’ambiente in cui siamo inseriti (a qualsiasi livello, dai rapporti internazionali alle relazioni che costruiscono la nostra comunità o la nostra famiglia) e la propria azione con cui portiamo trasformazione a questo ambiante. Tale incontro spazia dall’essere troppo riflessivi, scivolando in prediche vuote perché non portano ad alcuna azione, ad un attivismo fine a se stesso. Questo incontro viene costruito intorno alla parola che è l’unico strumento a nostra libera disposizione per relazionarci con gli altri. Parola e relazioni, quindi dialogo tra noi e gli altri.
Qua il centro attorno a cui tutto ruota (e finalmente ci siamo arrivati direte voi): il dialogo. Dialogo che è base di ogni relazione e che ci permette quindi di distinguere un operare che è trasformazione e sviluppo di una comunità da un operare che è sviluppo solo apparente, come una piccola differenza al processo di adattamento della comunità (che fa felice solamente il benefattore di turno).
LA PROPRIA SCELTA
A ciascuno di noi scegliere come dialogare, ne abbiamo la piena libertà di scelta e quindi la piena responsabilità. A ciascuno di noi scegliere se voler entrare in relazione in un rapporto di fiducia, in una relazione che può dirsi collaborativa e di comunione con l’altro, per poter così conoscere la realtà problematizzandola con le diverse visioni che ognuno ha, operando una sintesi di essa e poter così definire un’azione comune (non sarà più propria ma collaborativa con gli altri) in un’organizzazione, e trasformare la realtà per uno sviluppo di essa.
Se da un lato il dialogo ci permette di raggiungere lo sviluppo reale di una comunità (reale perché generato dai membri di essa), dall’altro può essere anche distruttivo per lo stesso sviluppo della comunità.
Se infatti la mia scelta fosse quella di bloccare i miei collaboratori ad un livello “inferiore” al mio dal punto di vista decisionale e creare in questa maniera un rapporto autoritario e quindi di sottomissione, il dialogo con la comunità porterebbe ad una conoscenza della realtà duale: da una parte la mia visione, dall’altra quella della comunità. L’azione trasformatrice che se ne genera sarebbe una falso sviluppo. Sarebbe la mia decisione che spinge l’azione degli altri i quali si adattano alla mia visione della realtà. Risultato: all’apparenza le cose funzionano e magari si raccolgono anche i frutti, ma la mia assenza porterebbe ad un immediato appassimento della pianta.
Sviluppo reale o apparente della comunità, generato dall’azione trasformatrice, generata dalla visione della realtà, generata dall’incontro con la comunità in un rapporto di fiducia o di autorità.
Ad ognuno la scelta.
Si potrebbe obbiettare che in certe situazioni, in certe fasi di crescita, la comunità non è matura abbastanza per elaborare un proprio processo di sviluppo e solo un inserimento in essa con autorità sarebbe in grado di portarla ad una trasformazione. Certamente, peccato che questa trasformazione sarebbe positiva solo nella nostra visione della realtà e la nostra azione (generata solo da noi) porterebbe ad una falso sviluppo della comunità che si ritiene “non matura” o “troppo indietro”.
Una seconda obiezione potrebbe dire che l’uomo è un essere sociale e una società deve avere un’autorità che la guidi, pertanto è necessaria la presenza di una persona d’autorità all’interno di qualsiasi gruppo. D’accordo, ma qui voglio sottolineare l’assoluta negatività del rapporto di autoritarismo, e non di un rapporto di guida autorevole, cioè di quella autorità intesa come forza morale che fa appello alla coscienza.
“L’autorità che si fonda solo o principalmente sulla minaccia o sul timore di pene o sulla promessa e attrattiva di premi, non muove efficacemente gli esseri umani all’attuazione del bene comune; e se anche, per ipotesi, li movesse, ciò non sarebbe conforme alla loro dignità di persone, e cioè di esseri ragionevoli e liberi. L’autorità è, soprattutto, una forza morale; deve, quindi, in primo luogo, fare appello alla coscienza, al dovere cioè che ognuno ha di portare volonterosamente il suo contributo al bene di tutti.” [Papa Giovanni XXIII]
L’ATTEGGIAMENTO DI FONDO
La collaborazione, il rapporto di fiducia e, più a monte, la propria scelta di dialogare con gli altri, non nasce dalla sera alla mattina, non è una cosa che si decide oggi perché si è visto un bel film o perché si è letto un bel libro. Come un consiglio per rendere più gustosa la ricetta della propria vita.
È qualcosa che ha radici nel proprio essere, qualcosa che prende forza dai propri valori e si rafforza nel cammino.
Le occasioni di scivolare nell’autoritarismo sono davvero tremende perché facili e quotidiane. Moltissime volte mi è capitato di vedere un problema, immediatamente definire la soluzione e progettare un’azione. Il che è bene se il problema è mio (minoranza dei casi), male quando il problema è comune con altri o addirittura esterno al mio ambiente. Specialmente non appena sono arrivato dall’Occidente e mi sono scontrato con i mille elementi “storti” africani, è stato facile (tanto facile quanto sbagliato) sentirmi “di più” e iniziare ad operare mille altrettante trasformazioni. Essere poi il protagonista di queste trasformazioni ci fa sentire ancora più buoni e migliori. A volte ci si sente quasi profeti in questa povertà. E si entra così in un circolo vizioso e pericoloso in cui al centro ci siamo solo noi.
Infondo che male c’è ad essere profeti ogni tanto? Che male c’è “educate questo popolo incapace e incolto”? Che male c’è nel “decido io, perché loro sbagliano sicuramente”? O addirittura che male c’è “farli sentire sottomessi altrimenti non lavorano abbastanza e le attività non vanno avanti”?
Tutto questo non incontrerebbe alcun ostacolo in una logica autoritaria, la quale parte da una concezione di dialogo in cui la parola dell’altro viene rubata, in cui lo scetticismo nei confronti della comunità di rafforza ad ogni incontro, in cui l’educazione che si porta avanti ha una struttura puramente verticale in cui “l’io-insegnate-padrone della conoscenza” sono sopra il “loro-discepoli-incolti”, in cui la seconda protagonista (visto che i primi saremmo noi) è una falsa generosità tutto a beneficio del nostro “essere buoni”. Tutti atteggiamenti radicati nell’errato relazionarci, frutto a mio parere di mancata riflessione, eccessiva coltivazione del proprio essere o mancanza di metodo (può capitare che la riflessione è positiva, ma il metodo comunicativo è tanto errato da mutare il messaggio che gli altri percepiscono).
Decisamente più difficile “tu come la vedi?”, “cerchiamo insieme come risolvere questo problema”, “sono riuscito a spiegarmi così?”, “secondo me… e secondo te?”, “proviamo a fare come dici tu”.
Atteggiamento certo molto più faticoso (anche perché certe volte… beh, diciamo che la loro creatività sembra superare i limiti del buon senso). Costa fatica comprendere una cultura diversa, comprendere un diverso senso ironico in modo da poter definire il limite tra lo scherzo e l’offesa (davvero importante in una équipe!!). È davvero lungo il cammino per avvicinarsi a chi è cresciuto in un ambiente diverso e invitarlo a fare qualche passo verso di te (l’incontro è tra i due, non uno che va dall’altro!!!).
È difficile certo e sta a noi scegliere. A noi scegliere che la nostra vita si compia di atti d’amore: è un atto di amore presentarsi all’altro aderendo alla sua condizione, portando con sé l’umiltà di non sentirsi superiore, la speranza che insieme si possa raggiungere una condizione migliore, la fiducia che lui possa accettare il nostro invito con un atteggiamento simile al nostro. Cosa che arriverà a fare se la nostra testimonianza avrà fino in fondo quel coraggio di amare e quella fede nell’uomo che ci spinge.
È difficile anche trovare quel metodo comunicativo che permette di far arrivare il nostro messaggio con meno interpretazioni e misunderstanding possibili. Difficile trovare quel linguaggio comune (comune!!! né il mio né quello dell’altro) che permette un dialogo, un incontro di riflessione e di azione.
Tornando quindi alle osservazioni iniziali, ci possono essere professionisti inseriti in un progetto e presentati come i super-consulenti di turno che dialogano con la comunità o i suoi rappresentanti, riuscendo a costruire quel rapporto di fiducia e quella relazione di collaborazione per cui il seme dato non vada perso. Differentemente ci possono essere padri missionari spinti dal Vangelo che però rubano la parola per poter rafforzare quell’autoritarismo che fa funzionare (apparentemente) le cose, per cui nasce un forte scetticismo nei confronti dell’altro difficile poi da sradicare.
BUON CAMMINO A TUTTI
In queste pagine sono certo di essere stato abbastanza confuso e di aver lasciato molti concetti aperti che necessiterebbero di un’analisi. Non me ne volete, la prossima volta cercherò di essere più chiaro e completo, magari riprendendo alcuni di questi pensieri per approfondirli come meritano. Questa relazione è nata come un semplice tentativo di mettere in ordine pensieri nati in questo cammino africano.
Vorrei infine sottolineare che ho scritto del rapporto tra operatore e comunità, discorso che ha valore tanto qui in Africa per i volontari inseriti in un progetto, quanto in Italia per i residenti nel proprio paese.
Non c’è davvero alcuna distinzione: ognuno è parte di una comunità e ognuno è responsabile della trasformazione di essa. La mia scelta di inserirmi in una comunità africana non mi fa migliore di chi rimane nel proprio paese, essenziale è sentire quella fede nell’uomo tale da renderci capaci di amare, per poter camminare insieme verso uno sviluppo della condizione di entrambi.
Buon cammino a tutti! E grazie per aver letto fino alla fine.
Bibliografia
Paulo Freire – “La pedagogia degli oppressi”
Marzo 1971, ancora immensamente attuale. L’autore, a causa delle sue idee, è stato esiliato dal suo paese, spero di non subire lo stesso trattamento. Libro trovato per caso alla bancarella del Mato Grosso in Valla Imagna (BG), non centra molto ma un po’ di pubblicità non fa male .
La Sacra Bibbia
Immancabile in ogni mia scelta, infinitamente preziosa nella preghiera.
Giovanni XXIII - Pacem in terris
Klaus W. Vopel – “Manuale per animatore di gruppo”
Per non sentirsi soli nel credere nelle potenzialità latenti presenti in ogni persona.
Questo mese è stato per me particolarmente caro, è stato speciale per la festività di San Francesco che lo ha aperto, poi quelle di San Daniele Comboni e di San Giovanni Calabria che l’hanno accompagnato. Infine c’è anche il mio ritorno in Italia per le vacanze. Ma c’è qualcosa d’altro che rende questo mese ancora più ricco: si conclude il mio primo anno di servizio qui a Nakuru, ed è tempo di riflessione!
Come gli altri anni, anche questo mi è scivolato tra le mani, trascorrendo giorno dopo giorno regalando attimi senza però fermarsi, offrendomi la libertà di cogliere quel momento presente schiacciato tra un passato a volte da rimpiangere e un futuro tutto da programmare tra tante scelte e ancora mille sogni da inseguire.
Vorrei ritagliarmi ora un piccolo spazio per guardare il cammino percorso e vedere un po’ cosa ho tolto e cosa ho messo nello zaino camminando per le strade di Nakuru e, in uno sguardo più ampio, per le strade durante questi due anni e mezzo di Africa.
A CIASCUNO IL SUO
Progetti di cooperazione internazionale, assistenzialismo, animazione, collaborazione, ricerca-azione attiva, evangelizzazione, attività sociali… a ciascuno il suo. Tutti siamo qui per fare del bene e forse basterebbe questo per liberarci la coscienza dai dubbi che ogni giorno nascono sul nostro operato.
Forse basterebbe questo. Ma facciamoci un po’ di critica, che non fa mai male.
Sostanzialmente non credo che la differenza tra le diverse tipologie di relazione di aiuto nasca dall’appartenere ad una ONG (grande o piccola che sia) o ad una congregazione. In Africa il bianco è bianco e pare che poco importi la sua ragione sociale, l’importante è che sia di supporto alla comunità.
Supporto che può essere molto concreto come un progetto agricolo o una distribuzione di beni di prima necessità in una fase di emergenza della comunità. Oppure un supporto meno tangibile come può essere un’attività di insegnamento professionale o di catechesi evangelica. A ciascuno programmare la propria attività. Ma la differenza non sta qui, qualcosa di positivo lo si fa sempre dato che ogni progetto di assistenza nasce dal sopperire ad un bisogno della comunità. Se poi il bisogno è stato espresso dalla comunità tanto meglio, altrimenti la chiusura del progetto significherà inevitabilmente la fine di ogni attività ad esso correlata. Nel qual caso si spera che il seminato abbia già dato frutto.
Gli operatori internazionali possono essere altamente professionali o semplicemente giovani cristiani volontari che si mettono a disposizione, ma anche qui non nasce la differenza tra un positivo operare nella comunità ed uno, diciamo, meno positivo.
Certamente l’essere o meno professionali, la tipologia di progetto in cui si è inseriti, l’appartenere ad una ONG piuttosto che il collaborare in stretto legame a missionari religiosi, sono tra i mille fattori che condizionano il proprio operare poiché sono parte del proprio bagaglio e tracciano i binari da seguire. Ma non ho visto tra questi l’elemento decisivo, il cardine del proprio agire, quel fattore che fa la differenza tra chi getta il seme al vento e chi invece prepara un buon terreno, attende la pioggia e poi affida il seme alla terra. Tra chi fa della propria testimonianza un punto di arrivo, come uno specchio per guardare solo se stesso, e chi invece ne fa una continua ricerca di sè sempre più critica e in profondità.
LE RELAZIONI INTERPERSONALI, IL DIALOGO
All’inizio ero convinto che “tu lavori in Africa in un progetto” o “tu sei missionario” equivalessero a dire “tu sei una brava persona, modello da seguire, perché fai del bene”. Che in parte è vero dato che, come ho detto prima, il proprio operato è comunque e in qualche misura di aiuto. Ma è proprio questa misura che può aumentare o decrescere in funzione del nostro essere e del nostro operare, possibilità che mi spinge non solo a valutare ogni mia azione, come se mi immergessi in un continuo processo di problem solving, ma anche a pesare ogni mia parola.
Perché il fattore cardine risiede nelle relazioni interpersonali che si è capaci di instaurare, relazioni che si costruiscono proprio intorno alla parola. In essa la nostra riflessione si accompagna alla nostra azione poiché queste in essa nascono, crescono, si evolvono entrando in relazione con altre, dando forma (anche se in continua evoluzione) a quella prassi che caratterizza in modo unico il nostro essere e, in diretta conseguenza, il nostro operare.
In altri termini, provando a spiegare questo concetto percorrendolo al contrario, l’operare di ciascuno è strettamente caratterizzato dall’incontro tra la propria capacità di riflettere su se stessi e sull’ambiente in cui siamo inseriti (a qualsiasi livello, dai rapporti internazionali alle relazioni che costruiscono la nostra comunità o la nostra famiglia) e la propria azione con cui portiamo trasformazione a questo ambiante. Tale incontro spazia dall’essere troppo riflessivi, scivolando in prediche vuote perché non portano ad alcuna azione, ad un attivismo fine a se stesso. Questo incontro viene costruito intorno alla parola che è l’unico strumento a nostra libera disposizione per relazionarci con gli altri. Parola e relazioni, quindi dialogo tra noi e gli altri.
Qua il centro attorno a cui tutto ruota (e finalmente ci siamo arrivati direte voi): il dialogo. Dialogo che è base di ogni relazione e che ci permette quindi di distinguere un operare che è trasformazione e sviluppo di una comunità da un operare che è sviluppo solo apparente, come una piccola differenza al processo di adattamento della comunità (che fa felice solamente il benefattore di turno).
LA PROPRIA SCELTA
A ciascuno di noi scegliere come dialogare, ne abbiamo la piena libertà di scelta e quindi la piena responsabilità. A ciascuno di noi scegliere se voler entrare in relazione in un rapporto di fiducia, in una relazione che può dirsi collaborativa e di comunione con l’altro, per poter così conoscere la realtà problematizzandola con le diverse visioni che ognuno ha, operando una sintesi di essa e poter così definire un’azione comune (non sarà più propria ma collaborativa con gli altri) in un’organizzazione, e trasformare la realtà per uno sviluppo di essa.
Se da un lato il dialogo ci permette di raggiungere lo sviluppo reale di una comunità (reale perché generato dai membri di essa), dall’altro può essere anche distruttivo per lo stesso sviluppo della comunità.
Se infatti la mia scelta fosse quella di bloccare i miei collaboratori ad un livello “inferiore” al mio dal punto di vista decisionale e creare in questa maniera un rapporto autoritario e quindi di sottomissione, il dialogo con la comunità porterebbe ad una conoscenza della realtà duale: da una parte la mia visione, dall’altra quella della comunità. L’azione trasformatrice che se ne genera sarebbe una falso sviluppo. Sarebbe la mia decisione che spinge l’azione degli altri i quali si adattano alla mia visione della realtà. Risultato: all’apparenza le cose funzionano e magari si raccolgono anche i frutti, ma la mia assenza porterebbe ad un immediato appassimento della pianta.
Sviluppo reale o apparente della comunità, generato dall’azione trasformatrice, generata dalla visione della realtà, generata dall’incontro con la comunità in un rapporto di fiducia o di autorità.
Ad ognuno la scelta.
Si potrebbe obbiettare che in certe situazioni, in certe fasi di crescita, la comunità non è matura abbastanza per elaborare un proprio processo di sviluppo e solo un inserimento in essa con autorità sarebbe in grado di portarla ad una trasformazione. Certamente, peccato che questa trasformazione sarebbe positiva solo nella nostra visione della realtà e la nostra azione (generata solo da noi) porterebbe ad una falso sviluppo della comunità che si ritiene “non matura” o “troppo indietro”.
Una seconda obiezione potrebbe dire che l’uomo è un essere sociale e una società deve avere un’autorità che la guidi, pertanto è necessaria la presenza di una persona d’autorità all’interno di qualsiasi gruppo. D’accordo, ma qui voglio sottolineare l’assoluta negatività del rapporto di autoritarismo, e non di un rapporto di guida autorevole, cioè di quella autorità intesa come forza morale che fa appello alla coscienza.
“L’autorità che si fonda solo o principalmente sulla minaccia o sul timore di pene o sulla promessa e attrattiva di premi, non muove efficacemente gli esseri umani all’attuazione del bene comune; e se anche, per ipotesi, li movesse, ciò non sarebbe conforme alla loro dignità di persone, e cioè di esseri ragionevoli e liberi. L’autorità è, soprattutto, una forza morale; deve, quindi, in primo luogo, fare appello alla coscienza, al dovere cioè che ognuno ha di portare volonterosamente il suo contributo al bene di tutti.” [Papa Giovanni XXIII]
L’ATTEGGIAMENTO DI FONDO
La collaborazione, il rapporto di fiducia e, più a monte, la propria scelta di dialogare con gli altri, non nasce dalla sera alla mattina, non è una cosa che si decide oggi perché si è visto un bel film o perché si è letto un bel libro. Come un consiglio per rendere più gustosa la ricetta della propria vita.
È qualcosa che ha radici nel proprio essere, qualcosa che prende forza dai propri valori e si rafforza nel cammino.
Le occasioni di scivolare nell’autoritarismo sono davvero tremende perché facili e quotidiane. Moltissime volte mi è capitato di vedere un problema, immediatamente definire la soluzione e progettare un’azione. Il che è bene se il problema è mio (minoranza dei casi), male quando il problema è comune con altri o addirittura esterno al mio ambiente. Specialmente non appena sono arrivato dall’Occidente e mi sono scontrato con i mille elementi “storti” africani, è stato facile (tanto facile quanto sbagliato) sentirmi “di più” e iniziare ad operare mille altrettante trasformazioni. Essere poi il protagonista di queste trasformazioni ci fa sentire ancora più buoni e migliori. A volte ci si sente quasi profeti in questa povertà. E si entra così in un circolo vizioso e pericoloso in cui al centro ci siamo solo noi.
Infondo che male c’è ad essere profeti ogni tanto? Che male c’è “educate questo popolo incapace e incolto”? Che male c’è nel “decido io, perché loro sbagliano sicuramente”? O addirittura che male c’è “farli sentire sottomessi altrimenti non lavorano abbastanza e le attività non vanno avanti”?
Tutto questo non incontrerebbe alcun ostacolo in una logica autoritaria, la quale parte da una concezione di dialogo in cui la parola dell’altro viene rubata, in cui lo scetticismo nei confronti della comunità di rafforza ad ogni incontro, in cui l’educazione che si porta avanti ha una struttura puramente verticale in cui “l’io-insegnate-padrone della conoscenza” sono sopra il “loro-discepoli-incolti”, in cui la seconda protagonista (visto che i primi saremmo noi) è una falsa generosità tutto a beneficio del nostro “essere buoni”. Tutti atteggiamenti radicati nell’errato relazionarci, frutto a mio parere di mancata riflessione, eccessiva coltivazione del proprio essere o mancanza di metodo (può capitare che la riflessione è positiva, ma il metodo comunicativo è tanto errato da mutare il messaggio che gli altri percepiscono).
Decisamente più difficile “tu come la vedi?”, “cerchiamo insieme come risolvere questo problema”, “sono riuscito a spiegarmi così?”, “secondo me… e secondo te?”, “proviamo a fare come dici tu”.
Atteggiamento certo molto più faticoso (anche perché certe volte… beh, diciamo che la loro creatività sembra superare i limiti del buon senso). Costa fatica comprendere una cultura diversa, comprendere un diverso senso ironico in modo da poter definire il limite tra lo scherzo e l’offesa (davvero importante in una équipe!!). È davvero lungo il cammino per avvicinarsi a chi è cresciuto in un ambiente diverso e invitarlo a fare qualche passo verso di te (l’incontro è tra i due, non uno che va dall’altro!!!).
È difficile certo e sta a noi scegliere. A noi scegliere che la nostra vita si compia di atti d’amore: è un atto di amore presentarsi all’altro aderendo alla sua condizione, portando con sé l’umiltà di non sentirsi superiore, la speranza che insieme si possa raggiungere una condizione migliore, la fiducia che lui possa accettare il nostro invito con un atteggiamento simile al nostro. Cosa che arriverà a fare se la nostra testimonianza avrà fino in fondo quel coraggio di amare e quella fede nell’uomo che ci spinge.
È difficile anche trovare quel metodo comunicativo che permette di far arrivare il nostro messaggio con meno interpretazioni e misunderstanding possibili. Difficile trovare quel linguaggio comune (comune!!! né il mio né quello dell’altro) che permette un dialogo, un incontro di riflessione e di azione.
Tornando quindi alle osservazioni iniziali, ci possono essere professionisti inseriti in un progetto e presentati come i super-consulenti di turno che dialogano con la comunità o i suoi rappresentanti, riuscendo a costruire quel rapporto di fiducia e quella relazione di collaborazione per cui il seme dato non vada perso. Differentemente ci possono essere padri missionari spinti dal Vangelo che però rubano la parola per poter rafforzare quell’autoritarismo che fa funzionare (apparentemente) le cose, per cui nasce un forte scetticismo nei confronti dell’altro difficile poi da sradicare.
BUON CAMMINO A TUTTI
In queste pagine sono certo di essere stato abbastanza confuso e di aver lasciato molti concetti aperti che necessiterebbero di un’analisi. Non me ne volete, la prossima volta cercherò di essere più chiaro e completo, magari riprendendo alcuni di questi pensieri per approfondirli come meritano. Questa relazione è nata come un semplice tentativo di mettere in ordine pensieri nati in questo cammino africano.
Vorrei infine sottolineare che ho scritto del rapporto tra operatore e comunità, discorso che ha valore tanto qui in Africa per i volontari inseriti in un progetto, quanto in Italia per i residenti nel proprio paese.
Non c’è davvero alcuna distinzione: ognuno è parte di una comunità e ognuno è responsabile della trasformazione di essa. La mia scelta di inserirmi in una comunità africana non mi fa migliore di chi rimane nel proprio paese, essenziale è sentire quella fede nell’uomo tale da renderci capaci di amare, per poter camminare insieme verso uno sviluppo della condizione di entrambi.
Buon cammino a tutti! E grazie per aver letto fino alla fine.
Bibliografia
Paulo Freire – “La pedagogia degli oppressi”
Marzo 1971, ancora immensamente attuale. L’autore, a causa delle sue idee, è stato esiliato dal suo paese, spero di non subire lo stesso trattamento. Libro trovato per caso alla bancarella del Mato Grosso in Valla Imagna (BG), non centra molto ma un po’ di pubblicità non fa male .
La Sacra Bibbia
Immancabile in ogni mia scelta, infinitamente preziosa nella preghiera.
Giovanni XXIII - Pacem in terris
Klaus W. Vopel – “Manuale per animatore di gruppo”
Per non sentirsi soli nel credere nelle potenzialità latenti presenti in ogni persona.
Monte Kenya
Difficile raccontarvi le emozioni del cammino. La fatica nella salita, la bellezza nello spingere i propri passi sempre in avanti, il freddo che ti congela la mente ma non il cuore, il respiro che si fa pesante, la mancanza di ossigeno che ti ferma i pensieri e aumenta il livello di stupidate che dici (concedimi di pensare che sia stata la rarefazione a farmi dire cagate, e non il mio solito essere), lo stupore nell’ammirare il sorgere del sole dalla vetta…
Infinite e stupende le sensazioni provate lungo il sentiero, e la più bella è stata condividere questi momenti con mia sorella: una ragazza meravigliosa che mi ha aiutato e mi aiuta nei miei passi. Tutto il resto passo in secondo piano.
Da bravi Gambirasio siamo stati sotto la media di percorrenza raggiungendo Punta Lenana (4985 m) prima del previsto e con la nostra semplicità: senza portantini ma con i nostri zaini sulle nostre spalle, senza tanta attrezzatura super tecnica (mia sorella usava la torcia del il suo cellulare per illuminare il sentiero…), percorrendo l’ultimo tratto con le mani in tasca per il freddo. Poi la discesa quasi correndo: alle 6.15 eravamo sulla vetta ad ammirare l’alba, alle 13.30 già uscivamo dalla zona protetta del comprensorio del monte Kenya, alla sera eravamo a cena in parrocchia.
E chi ci ferma più!
Infinite e stupende le sensazioni provate lungo il sentiero, e la più bella è stata condividere questi momenti con mia sorella: una ragazza meravigliosa che mi ha aiutato e mi aiuta nei miei passi. Tutto il resto passo in secondo piano.
Da bravi Gambirasio siamo stati sotto la media di percorrenza raggiungendo Punta Lenana (4985 m) prima del previsto e con la nostra semplicità: senza portantini ma con i nostri zaini sulle nostre spalle, senza tanta attrezzatura super tecnica (mia sorella usava la torcia del il suo cellulare per illuminare il sentiero…), percorrendo l’ultimo tratto con le mani in tasca per il freddo. Poi la discesa quasi correndo: alle 6.15 eravamo sulla vetta ad ammirare l’alba, alle 13.30 già uscivamo dalla zona protetta del comprensorio del monte Kenya, alla sera eravamo a cena in parrocchia.
E chi ci ferma più!
finalmente rompo il silenzio
È da tempo che non pubblico nulla che quasi quasi mi vergogno, poi rifletto e credo che forse dovrei preoccuparmi di più per quello che pubblico e non per quando lascio questi vuoti…
Comunque eccoti subito subito un paio di chicche che avevo scritto già da tempo ma non avevo avuto ancora occasione di presentare. Ma prima ti voglio scrivere una cosa, e te la scrivo urlando con un po’ di rabbia: sono pieno di difetti, lo ammetto e sono contento ogni volta che me li riconosco, ma
NON SBANDIERO QUELLO CHE NON SONO !!!
Se incontrassi Dio (1) …
Se incontrassi Dio,
probabilmente avrebbe il viso del mio nemico,
forse avrebbe un colore della pelle diverso dal mio,
o forse sarebbe proprio come me lo immaginavo da piccolo: pacioccone, con una barba bianca e un sorriso bonario.
Ma, ancora APPESO SANGUINANTE ALLA CROCE, CHIEDEREBBE AIUTO PER POTER SCENDERE.
Se incontrassi Dio (2) …
Se incontrassi Dio, forse mi direbbe: “Eccoti Gianpi, ti aspettavo.”
“Gesù mio, sono qui. Comunque bastava chiamarmi e sarei venuto subito”.
“Ogni giorno ti chiamavo. Ero il povero che ti chiese l’elemosina, sporco e vestito di stracci, seduto ai bordi della strada. Ero il ragazzo che aspettava da te una semplice e dolce carezza. Ero il tuo collega che, anche se ogni tanto isterico e scorbutico, attendeva la tua pazienza…”
“Gesù mio… ma quanti sei!”
“… ero il tuo vicino di casa che rincasa sempre tardi e con la radio dell’auto a tutto volume. Ero la signora anziana che abita dirimpetto e che ogni due per tre viene a farsi i fatti tuoi. Ero il tuo caporeparto a cui non gli andava mai bene nulla di quello che facevi. Ero il …”
“Gesù mio, cerco che anche tu te li vai a cercare simpatici eh…”
“Lasciami finire dai. Allora, ero… ero… ah! Ero nel sole che ogni giorno ti abbracciava, nel vento che soffiava accarezzandoti, nella pioggia che fresca bagnava il tuo vagare. Ero nel tempo che sfuggiva via da te regalandoti attimi…”
“Puoi arrivare al dunque?”
“Beh si forse, stavo perdendo il filo del discorso… Allora, ero un sacco di persone e cose, ma tu non sempre mi riconoscevi. Perché?”
“… forse perché ero sempre di corsa. Avevo tanta fretta.”
“Di fare cosa?”
“Beh, ora non ricordo. Ma avevo un sacco di cose da fare!”
“Che cosa di talmente importante da non poterti fermare un attimo per una preghiera?”
“Beh… ora non ricordo. Però, o Dio mio e Padre nostro. A proposito com’è che devo chiamarti?”
“Puoi chiamarmi semplicemente Santissima Trinità Unità di Padre Figlio e Spirito Santo”
“…”
“Facciamo che per ora Dio va bene”
“Grazie. Allora, dicevamo… ah si, è vero che fretta, stress, voglia di sicurezza mi hanno sempre separato da Te, o Dio, ma certo che anche Tu potevi farti sentire meglio. Sono state poche le persone in cui ho davvero riconosciuto la tua presenza. E non è che hanno fatto una bella fine. Perché è così difficile seguirTi? Perché sei così scomodo?”
“Sono scomodo, ma come la salita ad una montagna richiede sacrificio e impegno ed alla fine regala la gioia della vetta, così anche LA VITA GIOCATA E SPESA SUL VANGELO RICHIEDE SACRIFICIO, COSTANZA, A VOLTE ANCHE DOLORE, MA SA REGALARTI UNA GIOIA IMMENSA LUNGO IL CAMMINO. Prendi il mio giogo, vedrai che è leggero. Poi, dimmi, è vero o no che come ti amo io non ti ama nessuno?”
“Si, è vero.”
“Bene ora prosegui il cammino”
“Grazie Dio, ti voglio bene. Ci vediamo presto… beh, si fa per dire.”
Laicato missionario e religioso
come argomento non è certo dei più semplici da affrontare, si potrebbe scrivere un libro e non sarebbe ancora sufficiente per dare luce ad ogni angolo che questa tematica incontra.
Ci si potrebbe fare un seminario sulla diversa formazione (quando c’è stata) e su quella che dovrebbe essere fatta. Un altro seminario sui valori da cui nasce la missionarietà, ti prego non dare per scontato che siano gli stessi!
E poi i mille altri aspetti che portano il laico o il religioso ad assumere un certo atteggiamento piuttosto che un altro, a costruire diversi tipi di relazioni.
Insomma, seppure inseriti in uno stesso contesto, arrivano da un diversissimo percorso formativo e religioso e quindi sono portati a seguire due diversi stili di vita. Che assolutamente non si possono né comparare né tentare di amalgamare, ne andrebbe dell’equilibrio di entrambe le parti.
Estremizzando (e voglio portare un esempio davvero estremo) sarebbe come cercare di comparare Che Guevara e San Daniele Comboni.
Può sembrare un mix di sacro e profano, ma se ci soffermiamo su certi aspetti, io non li vedo poi molto tanto distanti: entrambi credevano nella fratellanza come base della comunità, entrambi si sono dati per costruire una società migliore. Entrambi hanno camminato contro vento, spinti dai propri ideali, preferendo incontrare la morte che vivere l’incoerenza.
“Adelante! O victoria o muerte!”
“Il mio grido sarà fino alla fine O Nigrizia o morte!”
Conclusione: ad ognuno il suo ruolo. Il giudizio che conta non è certo né il mio, né di chissà quale Superiore Generale… IL GIUDIZIO CHE IMPORTA SARÀ QUELLO DEL POVERO QUANDO, PRESENTANDOCI INSIEME DA SAN PIETRO, CI DARÀ O MENO IL PERMESSO PER ENTRARE.
E speriamo sia clemente con noi occidentali.
Comunque eccoti subito subito un paio di chicche che avevo scritto già da tempo ma non avevo avuto ancora occasione di presentare. Ma prima ti voglio scrivere una cosa, e te la scrivo urlando con un po’ di rabbia: sono pieno di difetti, lo ammetto e sono contento ogni volta che me li riconosco, ma
NON SBANDIERO QUELLO CHE NON SONO !!!
Se incontrassi Dio (1) …
Se incontrassi Dio,
probabilmente avrebbe il viso del mio nemico,
forse avrebbe un colore della pelle diverso dal mio,
o forse sarebbe proprio come me lo immaginavo da piccolo: pacioccone, con una barba bianca e un sorriso bonario.
Ma, ancora APPESO SANGUINANTE ALLA CROCE, CHIEDEREBBE AIUTO PER POTER SCENDERE.
Se incontrassi Dio (2) …
Se incontrassi Dio, forse mi direbbe: “Eccoti Gianpi, ti aspettavo.”
“Gesù mio, sono qui. Comunque bastava chiamarmi e sarei venuto subito”.
“Ogni giorno ti chiamavo. Ero il povero che ti chiese l’elemosina, sporco e vestito di stracci, seduto ai bordi della strada. Ero il ragazzo che aspettava da te una semplice e dolce carezza. Ero il tuo collega che, anche se ogni tanto isterico e scorbutico, attendeva la tua pazienza…”
“Gesù mio… ma quanti sei!”
“… ero il tuo vicino di casa che rincasa sempre tardi e con la radio dell’auto a tutto volume. Ero la signora anziana che abita dirimpetto e che ogni due per tre viene a farsi i fatti tuoi. Ero il tuo caporeparto a cui non gli andava mai bene nulla di quello che facevi. Ero il …”
“Gesù mio, cerco che anche tu te li vai a cercare simpatici eh…”
“Lasciami finire dai. Allora, ero… ero… ah! Ero nel sole che ogni giorno ti abbracciava, nel vento che soffiava accarezzandoti, nella pioggia che fresca bagnava il tuo vagare. Ero nel tempo che sfuggiva via da te regalandoti attimi…”
“Puoi arrivare al dunque?”
“Beh si forse, stavo perdendo il filo del discorso… Allora, ero un sacco di persone e cose, ma tu non sempre mi riconoscevi. Perché?”
“… forse perché ero sempre di corsa. Avevo tanta fretta.”
“Di fare cosa?”
“Beh, ora non ricordo. Ma avevo un sacco di cose da fare!”
“Che cosa di talmente importante da non poterti fermare un attimo per una preghiera?”
“Beh… ora non ricordo. Però, o Dio mio e Padre nostro. A proposito com’è che devo chiamarti?”
“Puoi chiamarmi semplicemente Santissima Trinità Unità di Padre Figlio e Spirito Santo”
“…”
“Facciamo che per ora Dio va bene”
“Grazie. Allora, dicevamo… ah si, è vero che fretta, stress, voglia di sicurezza mi hanno sempre separato da Te, o Dio, ma certo che anche Tu potevi farti sentire meglio. Sono state poche le persone in cui ho davvero riconosciuto la tua presenza. E non è che hanno fatto una bella fine. Perché è così difficile seguirTi? Perché sei così scomodo?”
“Sono scomodo, ma come la salita ad una montagna richiede sacrificio e impegno ed alla fine regala la gioia della vetta, così anche LA VITA GIOCATA E SPESA SUL VANGELO RICHIEDE SACRIFICIO, COSTANZA, A VOLTE ANCHE DOLORE, MA SA REGALARTI UNA GIOIA IMMENSA LUNGO IL CAMMINO. Prendi il mio giogo, vedrai che è leggero. Poi, dimmi, è vero o no che come ti amo io non ti ama nessuno?”
“Si, è vero.”
“Bene ora prosegui il cammino”
“Grazie Dio, ti voglio bene. Ci vediamo presto… beh, si fa per dire.”
Laicato missionario e religioso
come argomento non è certo dei più semplici da affrontare, si potrebbe scrivere un libro e non sarebbe ancora sufficiente per dare luce ad ogni angolo che questa tematica incontra.
Ci si potrebbe fare un seminario sulla diversa formazione (quando c’è stata) e su quella che dovrebbe essere fatta. Un altro seminario sui valori da cui nasce la missionarietà, ti prego non dare per scontato che siano gli stessi!
E poi i mille altri aspetti che portano il laico o il religioso ad assumere un certo atteggiamento piuttosto che un altro, a costruire diversi tipi di relazioni.
Insomma, seppure inseriti in uno stesso contesto, arrivano da un diversissimo percorso formativo e religioso e quindi sono portati a seguire due diversi stili di vita. Che assolutamente non si possono né comparare né tentare di amalgamare, ne andrebbe dell’equilibrio di entrambe le parti.
Estremizzando (e voglio portare un esempio davvero estremo) sarebbe come cercare di comparare Che Guevara e San Daniele Comboni.
Può sembrare un mix di sacro e profano, ma se ci soffermiamo su certi aspetti, io non li vedo poi molto tanto distanti: entrambi credevano nella fratellanza come base della comunità, entrambi si sono dati per costruire una società migliore. Entrambi hanno camminato contro vento, spinti dai propri ideali, preferendo incontrare la morte che vivere l’incoerenza.
“Adelante! O victoria o muerte!”
“Il mio grido sarà fino alla fine O Nigrizia o morte!”
Conclusione: ad ognuno il suo ruolo. Il giudizio che conta non è certo né il mio, né di chissà quale Superiore Generale… IL GIUDIZIO CHE IMPORTA SARÀ QUELLO DEL POVERO QUANDO, PRESENTANDOCI INSIEME DA SAN PIETRO, CI DARÀ O MENO IL PERMESSO PER ENTRARE.
E speriamo sia clemente con noi occidentali.
I nostri anni... e i nostri sogni
Domenica, come al solito dopo la S. Messa, mi fermo con i ragazzi per qualche minuto sul sagrato per i saluti (quelli di rito e quelli di piacere).
I ragazzi ne approfittano per divertirsi e, dopo il gioco di cacciarmi le dita sotto le ascelle (che per loro è tanto divertente quanto per me fastidioso), ora sono passati alla conta dei miei capelli bianchi. “Tre!” “No, sono quattro!” “Cinque!” e via proseguendo con la conta.
Ovviamente non vi dico a quanto sono arrivati. Ma tranquillizzatevi, non sono di caduto in una precoce crisi quarantenne, ma ancora una volta mi sono reso conto che sostanzialmente non mi importa poi molto del tempo che passa.
I mean, sono pieno di voglia di vivere e camminare, continuo ancora a inseguire i sogni di una vita senza tener conto che l’età avanza e probabilmente ho già perso qualche treno. Ma chi se ne frega! Lasciamo che i nostri sogni crescano, camminino e maturino insieme a noi, ci indichino la strada accompagnandoci nelle nostre scelte più importanti.
Non perdiamoli per strada, non soffochiamoli negli impegni lavorativi o in faccende che chiunque potrebbe sbrigare. Il proprio sogno è solamente nostro e se noi lo lasciamo nessun altro potrà prenderlo o realizzarlo.
Morale (se ce né una): scrivo oggi di desideri e di sogni perché la mia testa ne è ancora piena zeppa mentre i miei pensieri sono ancora castelli da costruire. Gli anni potranno passare, ma vedremo chi la spunta!
I ragazzi ne approfittano per divertirsi e, dopo il gioco di cacciarmi le dita sotto le ascelle (che per loro è tanto divertente quanto per me fastidioso), ora sono passati alla conta dei miei capelli bianchi. “Tre!” “No, sono quattro!” “Cinque!” e via proseguendo con la conta.
Ovviamente non vi dico a quanto sono arrivati. Ma tranquillizzatevi, non sono di caduto in una precoce crisi quarantenne, ma ancora una volta mi sono reso conto che sostanzialmente non mi importa poi molto del tempo che passa.
I mean, sono pieno di voglia di vivere e camminare, continuo ancora a inseguire i sogni di una vita senza tener conto che l’età avanza e probabilmente ho già perso qualche treno. Ma chi se ne frega! Lasciamo che i nostri sogni crescano, camminino e maturino insieme a noi, ci indichino la strada accompagnandoci nelle nostre scelte più importanti.
Non perdiamoli per strada, non soffochiamoli negli impegni lavorativi o in faccende che chiunque potrebbe sbrigare. Il proprio sogno è solamente nostro e se noi lo lasciamo nessun altro potrà prenderlo o realizzarlo.
Morale (se ce né una): scrivo oggi di desideri e di sogni perché la mia testa ne è ancora piena zeppa mentre i miei pensieri sono ancora castelli da costruire. Gli anni potranno passare, ma vedremo chi la spunta!
Pensieri e parole in una serata di fine maggio
Accetto l’invito a cena in parrocchia, effettivamente è da un po’ che non condivido con loro.
Purtroppo tra una cosa e l’altra, tra cui i soliti che arrivano in ritardo, esco da casa con le prime gocce di pioggia che ultimamente mi fa compagnia durante la sera.
Le nuvole sono ancora lontane e non mi preoccupo molto: la parrocchia dista una ventina di minuti a piedi ma dovrei arrivare prima che faccia buio e inizi a piovere sul serio.
Sono più o meno a metà strada quandouna ragazza che sta camminando nella direzione opposta alla mia mi ferma chiedendomi informazioni.
Con il pensiero le rispondo (Scusa, ma ti sembro uno del posto? Cioè, siamo in Kenya, sono un bianco, che cosa mi domandi informazioni?…)
Fortunatamente il suo kiswahili è appena più raffinato del mio e riesco sia a capire che ha sbagliato matatu e deve raggiungere la casa dello zio, sia a risponderle che le mancano tipo quaranta minuti a piedi. La ragazza è vestita bene (e qui si vestono bene o per andare a messa o quando si mettono in viaggio) e sembra davvero spaesata. Sembra inizi a piangere quando mi chiede “E adesso, che cosa posso fare?”
(Pota, siamo in Africa: prendi e cammina) la mia mente inizia a tradurre questo pensiero quando inizia a piovigginare, diciamo, in maniera più consistente. (Ok, effettivamente inizia a piovere, è già buio, che la sua storia sia vera o meno, rimane il fatto che il tragitto non è dei migliori per una ragazza sola). Così tiro fuori trenta scellini e le dico “Ok (cazzarola), aspetta qui il matatu che va verso quella direzione”
Faccio per andarmene quando mi chiede con un tono da paura “Non puoi stare qui e aspettare il matatu con me?”
“(Tutti i casi sfigati me li becco io?) Mmm (abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno)Ok” e giù in quel momento una pioggia torrenziale, veniva giù a secchiate.
Sotto la pioggia e ormai al buoi, si gira e mi chiede “E adesso, che cosa facciamo?”.
“(Pota, prendiamo l’acqua. Che cosa vuoi fare!!) Non ti preoccupare, che tra poco passa un matatu”
Detto fatto… dopo dieci minuti di pioggia, arriva finalmente un matatu. La ragazza mi ringrazia e sale.
Bagnato fradicio, cammino verso la parrocchia. Non sono tanto distante, ma il cammino è sufficientemente lungo per rompermi le infradito, scaricare le batterie della torcia, scivolare in pieno in un fosso. Bella conclusione di serata, non c’è che dire.
Purtroppo tra una cosa e l’altra, tra cui i soliti che arrivano in ritardo, esco da casa con le prime gocce di pioggia che ultimamente mi fa compagnia durante la sera.
Le nuvole sono ancora lontane e non mi preoccupo molto: la parrocchia dista una ventina di minuti a piedi ma dovrei arrivare prima che faccia buio e inizi a piovere sul serio.
Sono più o meno a metà strada quandouna ragazza che sta camminando nella direzione opposta alla mia mi ferma chiedendomi informazioni.
Con il pensiero le rispondo (Scusa, ma ti sembro uno del posto? Cioè, siamo in Kenya, sono un bianco, che cosa mi domandi informazioni?…)
Fortunatamente il suo kiswahili è appena più raffinato del mio e riesco sia a capire che ha sbagliato matatu e deve raggiungere la casa dello zio, sia a risponderle che le mancano tipo quaranta minuti a piedi. La ragazza è vestita bene (e qui si vestono bene o per andare a messa o quando si mettono in viaggio) e sembra davvero spaesata. Sembra inizi a piangere quando mi chiede “E adesso, che cosa posso fare?”
(Pota, siamo in Africa: prendi e cammina) la mia mente inizia a tradurre questo pensiero quando inizia a piovigginare, diciamo, in maniera più consistente. (Ok, effettivamente inizia a piovere, è già buio, che la sua storia sia vera o meno, rimane il fatto che il tragitto non è dei migliori per una ragazza sola). Così tiro fuori trenta scellini e le dico “Ok (cazzarola), aspetta qui il matatu che va verso quella direzione”
Faccio per andarmene quando mi chiede con un tono da paura “Non puoi stare qui e aspettare il matatu con me?”
“(Tutti i casi sfigati me li becco io?) Mmm (abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno)Ok” e giù in quel momento una pioggia torrenziale, veniva giù a secchiate.
Sotto la pioggia e ormai al buoi, si gira e mi chiede “E adesso, che cosa facciamo?”.
“(Pota, prendiamo l’acqua. Che cosa vuoi fare!!) Non ti preoccupare, che tra poco passa un matatu”
Detto fatto… dopo dieci minuti di pioggia, arriva finalmente un matatu. La ragazza mi ringrazia e sale.
Bagnato fradicio, cammino verso la parrocchia. Non sono tanto distante, ma il cammino è sufficientemente lungo per rompermi le infradito, scaricare le batterie della torcia, scivolare in pieno in un fosso. Bella conclusione di serata, non c’è che dire.
1 a 1 e palla al centro!
In questi giorni mi sono sorpreso, scrivendo sms ad amici in Italia, di sentirmi tra disperazione e speranza. Il che vuol dir tutto e niente, immagino. Magari può sembrare anche una frasi d’effetto, ma diciamocelo in faccia: molto non dice se non la confusione di chi scrive.
Mi voglio spiegare, o almeno ci provo.
Settimana scorsa la disperazione
Chiedo ad uno dei nostri educatori di prendere le misure dei vetri da riparare nella casa dei ragazzi, avvertendolo di prenderle con cura in modo da evitare l’errore dell’ultima volta, quando il primo prese le misure in centimetri mentre il secondo andò ad acquistarle pensando che i numeri fossero scritti in pollici. Il risultato fu vedere arrivare dalla città il secondo che a fatica trasportava vetri giganti facendo attenzione a non romperli.
Da qui l’avvertenza di prendere le misure con attenzione. Dopo un’ora di misurazioni e impegno, l’educatore mi porta fiero un foglietto con le misure registrate: 11.5 pollici x 11.2 pollici
Razionalmente e con pazienza cerco di spiegare al nostro educatore (che tra parentesi è uno tra quelli che “ha fatto le scuole alte”) che i pollici non hanno decimali e che, a meno che non si parli di idraulica, è meglio evitare di usarli.
Lui non capisce e non lo nasconde fissandomi con uno sguardo perso nel vuoto. Mi improvvisa una teoria fisica sul senso del .5 e del .2, teoria che cade non appena gli faccio notare che il pollice è diviso in 16 parti uguali e non in 10. Ancora sorpreso per questa scoperta, ride e accetta di usare i centimetri.
Il tutto, ovvero l’acquisto di una decina di vetri da sostituire, ha preso un ora di misurazioni, trenta minuti di spiegazione, un viaggio a vuoto in città ed un secondo per l’acquisto, il mio ritardo ad un incontro e la mia riflessione che “non ce la faranno mai”. Quindi 1 a 0 a sfavore dello sviluppo sostenibile.
Oggi la speranza
Con i ragazzi sono andato in un ospedale qui vicino per un controllo di routine: parametri vitali, esami del sangue e delle feci, radiografia del torace, visita ambulatoriale.
A parte il vedere la spavalderia dei nostri ragazzi trasformarsi in timore e per alcuni anche in paura di fronte ad una siringa ad uno sfigmomanometro, sono stato felicemente accolto dall’efficienza del personale ospedaliero, in particolare quello dedicato agli ambulatori e ai laboratori.
Ognuno sapeva cosa fare e come farlo, manteneva il proprio ambiente di lavoro pulito e in ordine, e faceva rispettare le regole ai pazienti in modo da offrire un servizio migliore.
Beh, vedere tutte queste cose in un solo giorno e nello stesso posto, qui in Kenya, è stato per me veramente sorprendente.
Quindi: 1 a 1 e palla al centro!!
Nota: già che c’ero, ho chiesto parere al medico in merito ad una strana infezione al braccio sinistro. La guarda e fa un’espressione del tipo “Ah però!”, poi mi rassicura dicendo che sono solamente “ring worms”.
Mi voglio spiegare, o almeno ci provo.
Settimana scorsa la disperazione
Chiedo ad uno dei nostri educatori di prendere le misure dei vetri da riparare nella casa dei ragazzi, avvertendolo di prenderle con cura in modo da evitare l’errore dell’ultima volta, quando il primo prese le misure in centimetri mentre il secondo andò ad acquistarle pensando che i numeri fossero scritti in pollici. Il risultato fu vedere arrivare dalla città il secondo che a fatica trasportava vetri giganti facendo attenzione a non romperli.
Da qui l’avvertenza di prendere le misure con attenzione. Dopo un’ora di misurazioni e impegno, l’educatore mi porta fiero un foglietto con le misure registrate: 11.5 pollici x 11.2 pollici
Razionalmente e con pazienza cerco di spiegare al nostro educatore (che tra parentesi è uno tra quelli che “ha fatto le scuole alte”) che i pollici non hanno decimali e che, a meno che non si parli di idraulica, è meglio evitare di usarli.
Lui non capisce e non lo nasconde fissandomi con uno sguardo perso nel vuoto. Mi improvvisa una teoria fisica sul senso del .5 e del .2, teoria che cade non appena gli faccio notare che il pollice è diviso in 16 parti uguali e non in 10. Ancora sorpreso per questa scoperta, ride e accetta di usare i centimetri.
Il tutto, ovvero l’acquisto di una decina di vetri da sostituire, ha preso un ora di misurazioni, trenta minuti di spiegazione, un viaggio a vuoto in città ed un secondo per l’acquisto, il mio ritardo ad un incontro e la mia riflessione che “non ce la faranno mai”. Quindi 1 a 0 a sfavore dello sviluppo sostenibile.
Oggi la speranza
Con i ragazzi sono andato in un ospedale qui vicino per un controllo di routine: parametri vitali, esami del sangue e delle feci, radiografia del torace, visita ambulatoriale.
A parte il vedere la spavalderia dei nostri ragazzi trasformarsi in timore e per alcuni anche in paura di fronte ad una siringa ad uno sfigmomanometro, sono stato felicemente accolto dall’efficienza del personale ospedaliero, in particolare quello dedicato agli ambulatori e ai laboratori.
Ognuno sapeva cosa fare e come farlo, manteneva il proprio ambiente di lavoro pulito e in ordine, e faceva rispettare le regole ai pazienti in modo da offrire un servizio migliore.
Beh, vedere tutte queste cose in un solo giorno e nello stesso posto, qui in Kenya, è stato per me veramente sorprendente.
Quindi: 1 a 1 e palla al centro!!
Nota: già che c’ero, ho chiesto parere al medico in merito ad una strana infezione al braccio sinistro. La guarda e fa un’espressione del tipo “Ah però!”, poi mi rassicura dicendo che sono solamente “ring worms”.
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