Grazie...

... a quelli che partono con la voglia di stare, a quelli che vivono il Vangelo prima di predicarlo,
a quelli che non smetteranno mai di sognare, a quelli che l'Amore è solo con la maiuscola,
a quelli che si accettano come sono, a quelli che piangono ad ogni partenza,
a quelli che Africa e Gioia si confondono ogni giorno, a quelli che vivono di emozioni,
a quelli che non smettono di camminare, a quelli che non si abbandonano mai,
a quelli che pregano, a quelli che sul piedistallo non ci vogliono stare, a quelli che Dio non è morto,
a quelli che si vive anche senza moda, a quelli che pensano con il cuore,
a quelli che non scelgono per comodità, a quelli che soffrono e poi ti guardano negli occhi più ricchi di prima,
...e anche a quelli che "Gianpi ci hai rotto con questi ringraziamenti"

"Proseguite il cammino"

OTTOBRE 2009

Questo mese è stato per me particolarmente caro, è stato speciale per la festività di San Francesco che lo ha aperto, poi quelle di San Daniele Comboni e di San Giovanni Calabria che l’hanno accompagnato. Infine c’è anche il mio ritorno in Italia per le vacanze. Ma c’è qualcosa d’altro che rende questo mese ancora più ricco: si conclude il mio primo anno di servizio qui a Nakuru, ed è tempo di riflessione!

Come gli altri anni, anche questo mi è scivolato tra le mani, trascorrendo giorno dopo giorno regalando attimi senza però fermarsi, offrendomi la libertà di cogliere quel momento presente schiacciato tra un passato a volte da rimpiangere e un futuro tutto da programmare tra tante scelte e ancora mille sogni da inseguire.
Vorrei ritagliarmi ora un piccolo spazio per guardare il cammino percorso e vedere un po’ cosa ho tolto e cosa ho messo nello zaino camminando per le strade di Nakuru e, in uno sguardo più ampio, per le strade durante questi due anni e mezzo di Africa.


A CIASCUNO IL SUO

Progetti di cooperazione internazionale, assistenzialismo, animazione, collaborazione, ricerca-azione attiva, evangelizzazione, attività sociali… a ciascuno il suo. Tutti siamo qui per fare del bene e forse basterebbe questo per liberarci la coscienza dai dubbi che ogni giorno nascono sul nostro operato.
Forse basterebbe questo. Ma facciamoci un po’ di critica, che non fa mai male.

Sostanzialmente non credo che la differenza tra le diverse tipologie di relazione di aiuto nasca dall’appartenere ad una ONG (grande o piccola che sia) o ad una congregazione. In Africa il bianco è bianco e pare che poco importi la sua ragione sociale, l’importante è che sia di supporto alla comunità.
Supporto che può essere molto concreto come un progetto agricolo o una distribuzione di beni di prima necessità in una fase di emergenza della comunità. Oppure un supporto meno tangibile come può essere un’attività di insegnamento professionale o di catechesi evangelica. A ciascuno programmare la propria attività. Ma la differenza non sta qui, qualcosa di positivo lo si fa sempre dato che ogni progetto di assistenza nasce dal sopperire ad un bisogno della comunità. Se poi il bisogno è stato espresso dalla comunità tanto meglio, altrimenti la chiusura del progetto significherà inevitabilmente la fine di ogni attività ad esso correlata. Nel qual caso si spera che il seminato abbia già dato frutto.
Gli operatori internazionali possono essere altamente professionali o semplicemente giovani cristiani volontari che si mettono a disposizione, ma anche qui non nasce la differenza tra un positivo operare nella comunità ed uno, diciamo, meno positivo.

Certamente l’essere o meno professionali, la tipologia di progetto in cui si è inseriti, l’appartenere ad una ONG piuttosto che il collaborare in stretto legame a missionari religiosi, sono tra i mille fattori che condizionano il proprio operare poiché sono parte del proprio bagaglio e tracciano i binari da seguire. Ma non ho visto tra questi l’elemento decisivo, il cardine del proprio agire, quel fattore che fa la differenza tra chi getta il seme al vento e chi invece prepara un buon terreno, attende la pioggia e poi affida il seme alla terra. Tra chi fa della propria testimonianza un punto di arrivo, come uno specchio per guardare solo se stesso, e chi invece ne fa una continua ricerca di sè sempre più critica e in profondità.


LE RELAZIONI INTERPERSONALI, IL DIALOGO

All’inizio ero convinto che “tu lavori in Africa in un progetto” o “tu sei missionario” equivalessero a dire “tu sei una brava persona, modello da seguire, perché fai del bene”. Che in parte è vero dato che, come ho detto prima, il proprio operato è comunque e in qualche misura di aiuto. Ma è proprio questa misura che può aumentare o decrescere in funzione del nostro essere e del nostro operare, possibilità che mi spinge non solo a valutare ogni mia azione, come se mi immergessi in un continuo processo di problem solving, ma anche a pesare ogni mia parola.
Perché il fattore cardine risiede nelle relazioni interpersonali che si è capaci di instaurare, relazioni che si costruiscono proprio intorno alla parola. In essa la nostra riflessione si accompagna alla nostra azione poiché queste in essa nascono, crescono, si evolvono entrando in relazione con altre, dando forma (anche se in continua evoluzione) a quella prassi che caratterizza in modo unico il nostro essere e, in diretta conseguenza, il nostro operare.
In altri termini, provando a spiegare questo concetto percorrendolo al contrario, l’operare di ciascuno è strettamente caratterizzato dall’incontro tra la propria capacità di riflettere su se stessi e sull’ambiente in cui siamo inseriti (a qualsiasi livello, dai rapporti internazionali alle relazioni che costruiscono la nostra comunità o la nostra famiglia) e la propria azione con cui portiamo trasformazione a questo ambiante. Tale incontro spazia dall’essere troppo riflessivi, scivolando in prediche vuote perché non portano ad alcuna azione, ad un attivismo fine a se stesso. Questo incontro viene costruito intorno alla parola che è l’unico strumento a nostra libera disposizione per relazionarci con gli altri. Parola e relazioni, quindi dialogo tra noi e gli altri.
Qua il centro attorno a cui tutto ruota (e finalmente ci siamo arrivati direte voi): il dialogo. Dialogo che è base di ogni relazione e che ci permette quindi di distinguere un operare che è trasformazione e sviluppo di una comunità da un operare che è sviluppo solo apparente, come una piccola differenza al processo di adattamento della comunità (che fa felice solamente il benefattore di turno).


LA PROPRIA SCELTA

A ciascuno di noi scegliere come dialogare, ne abbiamo la piena libertà di scelta e quindi la piena responsabilità. A ciascuno di noi scegliere se voler entrare in relazione in un rapporto di fiducia, in una relazione che può dirsi collaborativa e di comunione con l’altro, per poter così conoscere la realtà problematizzandola con le diverse visioni che ognuno ha, operando una sintesi di essa e poter così definire un’azione comune (non sarà più propria ma collaborativa con gli altri) in un’organizzazione, e trasformare la realtà per uno sviluppo di essa.
Se da un lato il dialogo ci permette di raggiungere lo sviluppo reale di una comunità (reale perché generato dai membri di essa), dall’altro può essere anche distruttivo per lo stesso sviluppo della comunità.
Se infatti la mia scelta fosse quella di bloccare i miei collaboratori ad un livello “inferiore” al mio dal punto di vista decisionale e creare in questa maniera un rapporto autoritario e quindi di sottomissione, il dialogo con la comunità porterebbe ad una conoscenza della realtà duale: da una parte la mia visione, dall’altra quella della comunità. L’azione trasformatrice che se ne genera sarebbe una falso sviluppo. Sarebbe la mia decisione che spinge l’azione degli altri i quali si adattano alla mia visione della realtà. Risultato: all’apparenza le cose funzionano e magari si raccolgono anche i frutti, ma la mia assenza porterebbe ad un immediato appassimento della pianta.

Sviluppo reale o apparente della comunità, generato dall’azione trasformatrice, generata dalla visione della realtà, generata dall’incontro con la comunità in un rapporto di fiducia o di autorità.
Ad ognuno la scelta.

Si potrebbe obbiettare che in certe situazioni, in certe fasi di crescita, la comunità non è matura abbastanza per elaborare un proprio processo di sviluppo e solo un inserimento in essa con autorità sarebbe in grado di portarla ad una trasformazione. Certamente, peccato che questa trasformazione sarebbe positiva solo nella nostra visione della realtà e la nostra azione (generata solo da noi) porterebbe ad una falso sviluppo della comunità che si ritiene “non matura” o “troppo indietro”.
Una seconda obiezione potrebbe dire che l’uomo è un essere sociale e una società deve avere un’autorità che la guidi, pertanto è necessaria la presenza di una persona d’autorità all’interno di qualsiasi gruppo. D’accordo, ma qui voglio sottolineare l’assoluta negatività del rapporto di autoritarismo, e non di un rapporto di guida autorevole, cioè di quella autorità intesa come forza morale che fa appello alla coscienza.
L’autorità che si fonda solo o principalmente sulla minaccia o sul timore di pene o sulla promessa e attrattiva di premi, non muove efficacemente gli esseri umani all’attuazione del bene comune; e se anche, per ipotesi, li movesse, ciò non sarebbe conforme alla loro dignità di persone, e cioè di esseri ragionevoli e liberi. L’autorità è, soprattutto, una forza morale; deve, quindi, in primo luogo, fare appello alla coscienza, al dovere cioè che ognuno ha di portare volonterosamente il suo contributo al bene di tutti.” [Papa Giovanni XXIII]


L’ATTEGGIAMENTO DI FONDO

La collaborazione, il rapporto di fiducia e, più a monte, la propria scelta di dialogare con gli altri, non nasce dalla sera alla mattina, non è una cosa che si decide oggi perché si è visto un bel film o perché si è letto un bel libro. Come un consiglio per rendere più gustosa la ricetta della propria vita.

È qualcosa che ha radici nel proprio essere, qualcosa che prende forza dai propri valori e si rafforza nel cammino.
Le occasioni di scivolare nell’autoritarismo sono davvero tremende perché facili e quotidiane. Moltissime volte mi è capitato di vedere un problema, immediatamente definire la soluzione e progettare un’azione. Il che è bene se il problema è mio (minoranza dei casi), male quando il problema è comune con altri o addirittura esterno al mio ambiente. Specialmente non appena sono arrivato dall’Occidente e mi sono scontrato con i mille elementi “storti” africani, è stato facile (tanto facile quanto sbagliato) sentirmi “di più” e iniziare ad operare mille altrettante trasformazioni. Essere poi il protagonista di queste trasformazioni ci fa sentire ancora più buoni e migliori. A volte ci si sente quasi profeti in questa povertà. E si entra così in un circolo vizioso e pericoloso in cui al centro ci siamo solo noi.

Infondo che male c’è ad essere profeti ogni tanto? Che male c’è “educate questo popolo incapace e incolto”? Che male c’è nel “decido io, perché loro sbagliano sicuramente”? O addirittura che male c’è “farli sentire sottomessi altrimenti non lavorano abbastanza e le attività non vanno avanti”?

Tutto questo non incontrerebbe alcun ostacolo in una logica autoritaria, la quale parte da una concezione di dialogo in cui la parola dell’altro viene rubata, in cui lo scetticismo nei confronti della comunità di rafforza ad ogni incontro, in cui l’educazione che si porta avanti ha una struttura puramente verticale in cui “l’io-insegnate-padrone della conoscenza” sono sopra il “loro-discepoli-incolti”, in cui la seconda protagonista (visto che i primi saremmo noi) è una falsa generosità tutto a beneficio del nostro “essere buoni”. Tutti atteggiamenti radicati nell’errato relazionarci, frutto a mio parere di mancata riflessione, eccessiva coltivazione del proprio essere o mancanza di metodo (può capitare che la riflessione è positiva, ma il metodo comunicativo è tanto errato da mutare il messaggio che gli altri percepiscono).

Decisamente più difficile “tu come la vedi?”, “cerchiamo insieme come risolvere questo problema”, “sono riuscito a spiegarmi così?”, “secondo me… e secondo te?”, “proviamo a fare come dici tu”.
Atteggiamento certo molto più faticoso (anche perché certe volte… beh, diciamo che la loro creatività sembra superare i limiti del buon senso). Costa fatica comprendere una cultura diversa, comprendere un diverso senso ironico in modo da poter definire il limite tra lo scherzo e l’offesa (davvero importante in una équipe!!). È davvero lungo il cammino per avvicinarsi a chi è cresciuto in un ambiente diverso e invitarlo a fare qualche passo verso di te (l’incontro è tra i due, non uno che va dall’altro!!!).

È difficile certo e sta a noi scegliere. A noi scegliere che la nostra vita si compia di atti d’amore: è un atto di amore presentarsi all’altro aderendo alla sua condizione, portando con sé l’umiltà di non sentirsi superiore, la speranza che insieme si possa raggiungere una condizione migliore, la fiducia che lui possa accettare il nostro invito con un atteggiamento simile al nostro. Cosa che arriverà a fare se la nostra testimonianza avrà fino in fondo quel coraggio di amare e quella fede nell’uomo che ci spinge.
È difficile anche trovare quel metodo comunicativo che permette di far arrivare il nostro messaggio con meno interpretazioni e misunderstanding possibili. Difficile trovare quel linguaggio comune (comune!!! né il mio né quello dell’altro) che permette un dialogo, un incontro di riflessione e di azione.

Tornando quindi alle osservazioni iniziali, ci possono essere professionisti inseriti in un progetto e presentati come i super-consulenti di turno che dialogano con la comunità o i suoi rappresentanti, riuscendo a costruire quel rapporto di fiducia e quella relazione di collaborazione per cui il seme dato non vada perso. Differentemente ci possono essere padri missionari spinti dal Vangelo che però rubano la parola per poter rafforzare quell’autoritarismo che fa funzionare (apparentemente) le cose, per cui nasce un forte scetticismo nei confronti dell’altro difficile poi da sradicare.


BUON CAMMINO A TUTTI

In queste pagine sono certo di essere stato abbastanza confuso e di aver lasciato molti concetti aperti che necessiterebbero di un’analisi. Non me ne volete, la prossima volta cercherò di essere più chiaro e completo, magari riprendendo alcuni di questi pensieri per approfondirli come meritano. Questa relazione è nata come un semplice tentativo di mettere in ordine pensieri nati in questo cammino africano.

Vorrei infine sottolineare che ho scritto del rapporto tra operatore e comunità, discorso che ha valore tanto qui in Africa per i volontari inseriti in un progetto, quanto in Italia per i residenti nel proprio paese.
Non c’è davvero alcuna distinzione: ognuno è parte di una comunità e ognuno è responsabile della trasformazione di essa. La mia scelta di inserirmi in una comunità africana non mi fa migliore di chi rimane nel proprio paese, essenziale è sentire quella fede nell’uomo tale da renderci capaci di amare, per poter camminare insieme verso uno sviluppo della condizione di entrambi.

Buon cammino a tutti! E grazie per aver letto fino alla fine.





Bibliografia

Paulo Freire – “La pedagogia degli oppressi”
Marzo 1971, ancora immensamente attuale. L’autore, a causa delle sue idee, è stato esiliato dal suo paese, spero di non subire lo stesso trattamento. Libro trovato per caso alla bancarella del Mato Grosso in Valla Imagna (BG), non centra molto ma un po’ di pubblicità non fa male .

La Sacra Bibbia
Immancabile in ogni mia scelta, infinitamente preziosa nella preghiera.

Giovanni XXIII - Pacem in terris

Klaus W. Vopel – “Manuale per animatore di gruppo”
Per non sentirsi soli nel credere nelle potenzialità latenti presenti in ogni persona.